Politiche

Una madre single, docente universitaria a tempo pieno, si interroga sulle ambivalenze di una ritrovata libertà. Siamo in Danimarca, dove le scuole hanno riaperto a metà aprile

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Foto: Unsplash/ Kelly Sikkema

Non dovrebbe sembrare qualcosa di sbagliato lasciare il proprio bambino o la propria bambina a scuola. “Mamma”, grida mia figlia, quando di pomeriggio mi corre incontro nel cortile della scuola, tutta impolverata per aver trascorso del tempo nell’area gioco, e imbrattata dei colori con cui al mio arrivo era intenta a ultimare la sua ultima fatica pittorica. Era il mio momento preferito della giornata: andare a prendere mia figlia e mio figlio, appetito e stanchezza nei loro occhi, i vestiti imbrattati. Ora ho un nodo alla gola quando penso a loro mentre si trovano a scuola. Sette e quattro anni, queste le loro età. Sono una mamma single, docente universitaria a tempo pieno.

Il 15 aprile 2020, la Danimarca è stata tra i primi paesi membri dell’Ue ad aver riaperto gli asili nido, le scuole dell’infanzia e le scuole primarie (per le classi da zero a cinque anni), poco più di quattro settimane dopo la chiusura totale annunciata l’11 marzo. Molti negozi sono rimasti aperti durante questo periodo e, mentre le istituzioni pubbliche hanno chiuso i battenti e i ristoranti sono rimasti con le serrande abbassate, alle persone era consentito uscire di casa a loro piacimento. Gli spostamenti internazionali sono ancora soggetti a restrizioni. Mentre scrivo, 285 persone sono ricoverate in ospedale, di cui 70 in terapia intensiva. Ad oggi in Danimarca è stato registrato un totale di 422 decessi da Covid19. Siamo riusciti ad appiattire la curva del contagio, così ci dicono. Per la prima fase della riapertura, il governo danese si è basato su “pragmatismo, realismo e responsabilità”. Come affermato dalla prima ministra Mette Frederiksen, la riapertura dei centri di assistenza all’infanzia e delle scuole fa sì che “padri e madri abbiano più tempo per lavorare da remoto. Proprio di questo c'è bisogno. Chiunque ne ha bisogno. Perché la lista delle cose da fare si allunga sempre di più”. Quanto lavoro si sta accumulando! Tuttavia, nella dichiarazione del governo, non si fa esplicita menzione dei bisogni dei bambini e delle bambine.

A livello internazionale, i riflettori sono puntati sulla riapertura delle scuole. “Come ti senti a lasciare tuo figlio e tua figlia a scuola?”, mi chiede mia sorella, residente in Germania e tre volte mamma (fascia d’età dei figli: sotto gli otto anni). In Germania, mentre si è in qualche misura discussa l’opportunità di consentire a chi frequenta l’ultimo anno di rientrare a scuola in vista del conseguimento del diploma, la questione degli asili nido, delle scuole dell’infanzia e delle scuole primarie non è stata quasi per nulla oggetto di dibattito politico. Tuttavia, si fanno sempre più forti le richieste di riaprire un numero sempre maggiore di attività economiche. Come se tutte le persone che lavorano in questo “scenario economico” fossero cresciute su un albero e non fossero inserite nella complessa rete della riproduzione sociale, la quale rende possibile qualsiasi forma di produzione economica.

In Danimarca, molti padri e molte madri mostrano preoccupazione. A livello di dibattito pubblico, si parla dell’opportunità di far rientrare a scuola bambini e bambine, e da più parti si levano voci contrarie. Non ci sono molti dati statistici a disposizione. Chi è in età infantile diffonde il virus pur non mostrandone i sintomi? Cosa succede a bambini e bambine i cui padri e le cui madri appartengono ai gruppi a rischio? Mio/a figlio/a morirà di Covid19 se lo/a rimando a scuola? Lo Statens Serum Institut[1] tenta di divulgare i dati. Ad oggi, il 2,6% del totale dei casi accertati di Covid19 in Danimarca ha riguardato soggetti minori d’età, la metà nella fascia d’età dai 13 anni in su. Il gruppo Facebook My child should not be a guinea pig for Covid-19 (i nostri figli e le nostre figlie non sono cavie per il Covid19, ndt) ha raggiunto un totale di 40.000 membri in pochi giorni. Molti quotidiani pubblicano articoli su questo gruppo ma, in fin dei conti, le persone stanno di fatto rimandando i propri figli e le proprie figlie a scuola. Nella scuola di mia figlia, il tasso di frequenza ha toccato l’80% durante la prima settimana della fase di riapertura, ed è ora salito all’89%.

Le scuole devono rispettare protocolli molto severi fissati dall’Istituto superiore di sanità danese, al fine di assicurare condizioni igieniche adeguate e distanziamento. Gli orari di ingresso e di uscita sono sfalsati così da evitare assembramenti di persone nei punti di accesso agli edifici scolastici. Ai padri e alle madri non è consentito l’accesso ai cortili delle scuole; inoltre, al momento dell’uscita da scuola, il personale docente si posiziona a lato dei cancelli per ricordare agli alunni e alle alunne di lavarsi/disinfettarsi le mani. Mentre raggiungo la macchina parcheggiata, incrocio gli sguardi di altri padri e di altre madri, sguardi pieni di incertezza, e mi dico: Det skal nok gå – “Andrà tutto bene. Ok?”

Rispettare la normativa è molto oneroso per gli istituti di assistenza all’infanzia e per le scuole. Le associazioni nazionali che riuniscono i centri di assistenza all’infanzia lanciano un grido d’allarme. Molti edifici non sono grandi abbastanza da consentire la suddivisione di bambini e bambine in gruppi sufficientemente ristretti, nonché la riorganizzazione del mobilio secondo le nuove necessità, e un accesso ai servizi igienici in tutta sicurezza. La superficie delle aree gioco è limitata. Non c’è abbastanza personale per sorvegliare i tanti piccoli gruppi che è necessario formare per rispettare le dimensioni massime consentite dai protocolli. Sul territorio comunale di Copenaghen, solo 16.000 delle 34.000 strutture di assistenza all’infanzia sono potute tornare a essere operative durante la prima settimana. Siamo alla disperata ricerca di spazi urbani per l’infanzia, nei musei, nelle aree pubbliche; perfino i Giardini di Tivoli, il parco divertimenti nel cuore della capitale, offrono spazio per gruppi di bambini e bambine.

“Fai scorrere l’acqua, fai scorrere l’acqua, insaponati, insaponati…” canta mia figlia quando torna casa. Lavati le mani. Usa il disinfettante. Tossisci nella piega del gomito. Non condividere il pranzo o la merenda. Mantieni le distanze. Non permettere al Coronavirus di colpirti. Tutte raccomandazioni volte a ottenere il controllo della situazione, controllo che purtroppo non è tanto forte quanto vorremmo.

La pressione sul personale educatore e docente degli asili nido, della scuola dell’infanzia e della scuola primaria è molto forte. Un gran numero di costoro sono ovviamente padri e madri, una parte potrebbe avere problemi di salute pregressi o rientrare nella fascia di popolazione a rischio in virtù dell’età. Tutto il personale educatore e docente è stato coinvolto dalla recente serrata. Nella scuola di mia figlia, il corpo docente ha inviato esercizi, condiviso video, risposto alle domande, fornito incoraggiamento, partecipato a videochiamate Zoom con tutta la classe. Ora, seppure con l’aiuto di assistenti presenti in classe, il livello di sorveglianza che il personale docente deve assicurare è senza precedenti. Vengono forniti riconoscimenti o un compenso per questi sforzi aggiuntivi?

Fortunatamente, il tempo è buono. Si può andare spesso al parco. In caso di pioggia, ci si infila il k-way e si rimane all’aperto. Nei paesi scandinavi, non esiste il concetto di maltempo. È solo questione di abbigliamento sbagliato. Stai attento però a non prenderti il raffreddore. Non starnutire, non tossire. Al minimo sospetto che un(a) bambino/a non si senta bene, viene rimandato/a immediatamente a casa, precisa la scuola. È stato diffuso un aggiornamento al riguardo: in caso di allergie, si prega di informare il personale docente, così da evitare discussioni a scuola sull’opportunità o meno di rimandarlo/a a casa. Il corpo docente manda messaggi affermando quanto sia bello vedere nuovamente visi sorridenti a scuola. Ogni volta, mi impongo di non farmi sopraffare dal romanticismo. Il personale docente, per quanto possa identificarsi con il proprio lavoro, è composto da lavoratori e lavoratrici cui viene pagato uno stipendio; costoro, se potessero non vendere il loro lavoro, andrebbero in classe? Quando (o piuttosto se) le restrizioni verranno rimosse, ci ricorderemo di stare dalla parte del personale docente (e di tutti i lavoratori e tutte le lavoratrici, fino ad oggi nell’ombra, del settore sanitario, delle pulizie, dei supermercati e delle infrastrutture chiave) al momento del rinnovo dei contratti collettivi e della ridefinizione di retribuzioni e condizioni di lavoro? Nel 2013, circa 90.000 insegnanti in Danimarca hanno subito una vera e propria serrata nel corso di una vertenza sindacale che ha visto scontrarsi i sindacati, da un lato, e il governo / i comuni, dall’altro. Cosa accadrà nei prossimi anni, quando si avrà contezza dell’entità della spesa pubblica durante la crisi, e verranno annunciati tagli al welfare?

Dopo un paio di giorni, porto un po’ di cioccolata per il personale educatore e docente dell’asilo. Tutto sommato, il gruppetto di cui fa parte mio figlio ha reagito bene. “Siamo in prigione?”, questa una delle prime reazioni al vedere le barriere divisorie che delimitano l’area gioco riservata al suo gruppo. Dopo due giorni, mio figlio non vuole più andare all’asilo. “È cambiato”, mi dice. “Non voglio più andarci. Voglio stare con te.” Ho un’esitazione. Potrei riportarlo a casa, fargli vedere qualcosa sul tablet mentre faccio lezione online. Questa è stata la soluzione durante la serrata. PAW PatrolLa squadra dei cuccioli, My Little PonyL'amicizia è magica e la distribuzione, da parte mia, di caramelle durante le videochiamate Zoom. Con la promessa di comprargli un gelato nel pomeriggio e l’aiuto di una persona che lavora nella scuola, lo spingo attraverso il cancello, lui in lacrime, io sul punto di scoppiare a piangere. Sto causando un trauma psichico a mio figlio durante una pandemia mondiale. E con quale scopo poi? Per andare a fare lezione a una platea di studenti, la gran parte traumatizzata da settimane di incertezza, malattia, noia, perdita di reddito? Due minuti dopo, una notifica sul cellulare. È l’asilo che mi manda una foto di mio figlio che gioca felice. Salgo in macchina e scoppio in lacrime. È giusto che stia all’asilo, in compagnia di bambini e bambine della sua età. Trascorre tutto il giorno all’aperto; sono stati installati bagni chimici, ed è stata montata una tenda per ripararsi dal sole. Musica e balli animano i gruppetti dei nostri piccoli e delle nostre piccole, la pelle coperta di crema solare. “Sembra di essere al Roskilde Festival”, scherzano i membri del corpo docente. “Non ci manca neppure l’alcol”, affermano mentre indicano il disinfettante.

Chiedo a mia figlia come è andata la sua giornata. Oggi ha imparato la differenza tra traslucenza e trasparenza. La sua maestra riesce a coinvolgere le loro menti argute e felici perfino in questi momenti di forte incertezza. Non so proprio come faccia; quando faccio lezione online, tendo a divagare in flussi di coscienza, e la platea di studenti che vi partecipano non me lo fa notare semplicemente perché ho silenziato i loro microfoni. Durante la serrata, ho cercato di seguire mia figlia con i compiti. Troppa frustrazione da entrambe le parti! Mi sento ancora più in soggezione quando noto la facilità con cui la maestra riesce a riportare gli alunni e le alunne allo studio. La classe è stata suddivisa in gruppi più piccoli. I bambini e le bambine hanno trascorso il loro primo anno e mezzo di scuola imparando a lavorare insieme, in piccoli gruppi; ora devono invece mantenere una certa distanza, che suona loro come un qualcosa di innaturale. “Quindi”, voglio sapere, “a scuola ti diverti oppure ci sono solo regole e procedure da rispettare?” Un sorriso impertinente sul suo viso: quando l’insegnante è distratta, la sua amichetta la raggiunge al suo banco e si toccano le mani. Il padre della sua amichetta ha detto che il coronavirus non è niente di più di un semplice raffreddore; quindi, che sarà mai? Il padre della sua amichetta permette inoltre alla figlia di portare i giocattoli a scuola. Mi chiede quindi se anche lei può portare i suoi. Vorrei spiegarle cosa direi al padre della sua amichetta, ma non voglio dire parolacce davanti a lei.

Parlo con lo psicologo di famiglia che lavora nel centro comunale per le famiglie. Mi dice che la maggior parte delle famiglie con cui lavoro non ce la fa più a restare segregata tra le mura domestiche. Molte sono costrette a vivere in appartamenti piccoli, e devono fare i conti con livelli crescenti di disoccupazione, incertezza e violenza fisica e psicologica. La settimana successiva all’inizio della serata, le chiamate ai centri antiviolenza in Danimarca sono raddoppiate. Il governo ha deciso di aumentare di 55 il numero dei posti riservati a donne e a bambini e bambine all’interno dei centri antiviolenza. Ora che le scuole hanno riaperto i battenti, la situazione migliorerà? I datori di lavoro sanno che le scuole hanno riaperto. Se bisogna scegliere, quale lavoro è più importante? Chi rimane a casa se il proprio figlio o la propria figlia ha la tosse? Chi va a scuola prima della fine delle lezioni per riportare a casa quel bambino o quella bambina che non riesce ad adattarsi al nuovo contesto scolastico, caratterizzato da forti limitazioni?

“Deve essere una bella sensazione quella di poter lavorare in pace e in tranquillità, ora che le scuole hanno riaperto”, mi sento dire da un collega. Abbozzo un sorrisetto ambivalente. I gruppi femministi sottolineano l’urgenza di adottare una prospettiva di genere nelle risposte adottate, a livello di politica pubblica, per fronteggiare l’emergenza sanitaria. Dobbiamo dare loro ascolto! Il riconoscimento del senso di impotenza e paura che accompagna il tema della cura dell’infanzia durante la crisi dovrebbe rappresentare una parte fondamentale di queste risposte, un primo passo per trasformarle in un’azione solidaristica e collettiva.

Note 

[1] Si tratta di un ente pubblico di ricerca che si occupa, tra le altre cose, di prevenzione e lotta alle malattie infettive, ndt.

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