Opinioni

Una carriera gratificante, un partner amorevole, una famiglia allegra. Quarant'anni dopo la pubblicazione del libro-icona Having it all, oggi per una donna "avere tutto" suona più come un dovere che come un incoraggiamento. E si dovrebbe parlare del vero prezzo della conciliazione a tutti i costi

Avere tutto non
significa fare tutto

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Foto: Unsplash/Brooke Cagle

È il 1982. Le giacche hanno le spalline, i capelli sono vaporosi, gli spritz sono il massimo dell’eleganza e tutti adorano andare a ballare. Le donne si stanno facendo strada nel mondo del lavoro. Una è persino a capo di un paese. E tutte quelle che conosci stanno leggendo Having it all: love, success, sex, money - Even if you started with nothing, (Simon and Schuster, 1982) di Helen Gurley Brown.

Oggi ci sembra scontato, ma all’epoca anche solo pensare di poter "avere tutto" non era una questione banale. Brown, che era stata al timone di Cosmopolitan US per vent'anni, fu in un certo senso una pioniera del movimento di liberazione delle donne. Come riferirà più tardi in un’intervista Kaitlyn Mendes, professoressa di studi di genere, esperta di media e sociologia all’Università di Leicester, “più che essere legate alla dimensione casalinga, avere tutto rappresentava un’ambizione che andava al di là di quanto ci si aspettasse dalle donne in quel momento”.

Anche se non ha inventato la frase, è Brown ad aver introdotto l’idea che le donne potessero avere una carriera gratificante, un partner amorevole e una famiglia allegra. Tuttavia, da allora si è fatta strada l'opinione per cui l'imperativo "avere tutto" esercita una pressione inutile, spingendo le donne a tentare di essere tutto per tutti, e lasciando poco spazio alle sfumature intersezionali. Perché l'avere tutto non tiene in considerazione questioni legate all'etnia, all’identità sessuale e di genere. In questa sede, non vorrei tanto discutere sul fatto se possiamo o non possiamo avere tutto, ma analizzare che cosa significa oggi quel "tutto".

Parliamo di lavoro. Mia madre mi ha avuta nel 1981, un anno prima dell’uscita del libro di Brown, ed era una delle poche donne nella sua cerchia di amiche e familiari che lavorava a tempo pieno. 

Quando il consumismo degli anni Ottanta e l’aumento del costo della vita hanno preso piede, le donne come mia madre sono andate a lavorare perché dovevano e, solo in alcuni casi, perché lo volevano. Un privilegio concesso in gran parte alle donne bianche della classe media, rispetto a quelle della classe operaia che già da tempo lavoravano fuori casa, per contribuire finanziariamente alle loro famiglie. Il sessismo era diffuso e persisteva l’idea (dura a morire) che ci fossero lavori “da donna” e “da uomo”. Si può capire perché il messaggio di Brown, secondo cui in quanto donna potevi porti l'obiettivo di perseguire una carriera soddisfacente, fu una boccata d’aria fresca. Il successo, sotto forma di denaro e carriera, sembrava improvvisamente raggiungibile, insieme all’indipendenza economica.

Avere diritto a una carriera appagante non è più in discussione, ma altri aspetti relativi alla parità di genere stanno impiegando più tempo del previsto a realizzarsi, come il divario retributivo. Le barriere sul lavoro esistono, e si palesano sotto forma di mobilità, discriminazione di genere e razziale sul posto di lavoro e costi proibitivi per l’assistenza all’infanzia. Il "tutto" a cui aspiriamo oggi si presenta sotto forma di parità salariale per lo stesso lavoro, di flessibilità, o magari di un impiego più in linea con il nostro sistema di valori.

Per alcune di noi, avere tutto significa avere la libertà di modificare il proprio modo di lavorare: part-time per potersi dedicare ad altri progetti, da casa per avere maggiore controllo sul proprio tempo. Oppure fare un secondo lavoro che appassiona e averne uno in azienda che serva a pagare mutuo e spese. Mentre la lotta per lo status negli anni Ottanta era avere un lavoro sicuro in ufficio dalle 9 alle 17, con uno stipendio alto, oggi il segno di “avercela fatta” è fare un lavoro che permetta di vivere ma che funzioni per noi. Sembra che la pressione per assicurarsi un ruolo aziendale di successo che prometta promozioni e aumenti salariali sia diminuita, sostituita dalla ritrovata pressione di fare qualcosa che ami

Il nuovo "avere tutto" è poter lasciare un lavoro ripetitivo, anche se dirigenziale, per perseguire un nuovo percorso lavorativo, nonostante la difficoltà a scrollarci di dosso le pressioni sociali sia ancora molto forte. La carriera totalizzante è diventata infatti un bastone tra le ruote contro cui ci battiamo quotidianamente e che ci fa spesso sentire non all’altezza degli altri, il cui successo professionale è spesso gonfiato e reso più visibile dai social media. "Avere tutto" oggi ha anche a che vedere con la capacità di mostrarci per quello che siamo realmente, facendo coming out anche sul posto di lavoro.

La parte più controversa dell’avere tutto un tempo era legata alla scelta tra l’essere madre e avere una carriera di successo, magari con un ruolo manageriale. Eppure, solo sei pagine sulle 462 del libro di Brown parlano di figli, e lei stessa non ne aveva. Oggi, il modo in cui ci sentiamo riguardo alla maternità sta iniziando a spostarsi da “ovviamente li avrai” all’accettazione che si tratta di una scelta individuale. Ci si chiede sempre più spesso se avere figli sia quello che la società si aspetta da una donna o se sia invece quello che realmente vogliamo.

Anche ciò che oggi consideriamo come nucleo familiare è cambiato: una persona giovane su cinque si identifica come Lgbtqia+ (e il 72% come completamente eterosessuale); la questione di dove si inseriscano i figli in tutto questo è più complessa che mai. E poi ci sono le donne per le quali “il tutto” non è la famiglia, o che se si avvicinano all’idea di avere una famiglia, avendo un certo livello di privilegio e libertà, scelgono di farlo senza necessariamente avere un partner.

È difficile credere oggi quanto fossero rivoluzionari in passato Cosmopolitan e Brown nel parlare di sesso. Il suo primo libro, Sex and the single girl (Barricade Books, 1962), incoraggiava le donne a cercare il piacere sessuale prima del matrimonio. Having it all ha un capitolo lunghissimo dedicato al sesso, che copre diversi argomenti. È eteronormativo, ma per l’epoca era un faro per le donne che annaspavano in un mare di sessualità maschile. Mentre gli atteggiamenti nei confronti del sesso femminile hanno fatto passi da gigante dagli anni Ottana, c’è ancora del lavoro da fare, ma si parla ormai da tempo del fatto che il piacere sessuale femminile è importante quanto quello maschile, e abbiamo finalmente riconosciuto che esiste una disuguaglianza anche nel sesso, non più negoziabile.

Quando parliamo di piacere sessuale c’è il rifiuto ad accettare copioni sociali su come dovrebbe essere e si ha la tendenza a creare definizioni personali o con il proprio partner. Si tratta anche di andare oltre la pressione di una relazione sessuale, rispettando le persone anche attraverso lo spettro della asessualità e affermando il diritto di scegliere. Certo, non è ancora facile: oggi riconosciamo che le donne possano avere una vita sessuale, tuttavia ci sono ancora tanti tabù per donne appartenenti a culture diverse, per le donne trans, le donne disabili. ra molestie sessuali e victim blaming ancora diffuse nella nostra cultura, è chiaro che c’è ancora molta strada da fare prima che possiamo veramente dire di "avere tutto” quando si parla di uguaglianza sessuale. Ma c’è un barlume di speranza: ora è vietato minacciare qualcuno con il revenge porn, ad esempio, e prosperano i movimenti sulla positività sessuale.

Se Brown riscrivesse Having it all oggi, accanto ai capitoli sul sesso, l’amicizia e la carriera ce ne sarebbe uno sui social media. Molte cose sono cambiate dal lancio di Cosmopolitan, ma è difficile trovare qualcosa che abbia avuto un impatto più profondo dei social sul modo in cui ci sentiamo riguardo a noi stessi e al mondo che ci circonda. Per molte persone, oggi “avere tutto” significa avere molti follower. La maggior parte di noi è consapevole di quanto siano in mostra le nostre vite e si prende cura della propria immagine online, creandone una che ritiene desiderabile. Per le nuove generazioni, non sempre il successo professionale viene mostrato tanto quanto il successo personale: il look, gli amici, le feste.

Sono tecnicamente una elder millennial (nata, cioè, nei primi anni Ottanta), e anche per me la nozione di visibilità è strettamente legata al modo in cui mi percepisco. Non vorrei che lo fosse, ma lo è. Negli anni Ottanta se trovavi un nuovo lavoro o ti sposavi (o viceversa perdevi tutto o avevi divorziato da tuo marito) l’avrebbero saputo solo le persone a cui lo dicevi. Oggi potrebbe diventare virale nel momento stesso in cui premi “condividi”.

Ma non è tutto negativo. I social media possono anche essere uno strumento di connessione, una voce per le comunità emarginate e un modo per creare movimenti (Me Too, Black Lives Matter, Reclaim the Night). È fondamentale rendersi conto che anche l’idea di visibilità, come indicatore del tipo di successo, dipende molto dalle comunità di riferimento e dalle relazioni che scegliamo attivamente, più che da quelle che scegliamo di seguire passivamente. Per una donna trans, visibilità ha un significato diverso rispetto a quello che ha per una donna cisgender (vale a dire chi percepisce in modo positivo la corrispondenza fra la propria identità di genere e il proprio sesso biologico). Quarant’anni fa le persone trans non potevano fare coming out ed essere visibili nella società. Oggi affrontano ancora stigma, critiche e violenza. Per queste persone, “avere tutto” significa avere il diritto di esistere liberamente e di avere tutto ciò che le altre persone hanno già.

In passato avere tutto aveva a che fare con la conciliazione, l’unione di entità che esistevano in precedenza in compartimenti stagni: una carriera e una famiglia, sesso e amore, amicizie significative e un lavoro fuori casa, i soldi e un partner. Si trattava di dire sì alla “e”, ed è stato il catalizzatore per chiedere pari opportunità sul lavoro, così come nella sessualità e nella gestione dei figli. 

Oggi siamo nel mezzo di un cambiamento sismico, in cui vogliamo il diritto a separare di nuovo tutte quelle cose e, soprattutto, di dire di no alle parti che non vogliamo. “Avere tutto” potrebbe riguardare anche ciò che scegliamo di non avere. Saper dire di no.

Una carriera, ma senza figli. O investire energie in altro che non sia il lavoro che paga le bollette. Avere una vita pubblica sui social che sia separata dalla vita privata. La pressione sull’essere perfette in tutte quelle “e” è ancora lì. Il giudizio alza ancora la testa quando andiamo contro ciò che ci si aspetta da noi. Ma anche se non ci siamo ancora arrivate, i progressi degli ultimi quarant’anni sono qualcosa su cui basarsi e costruire fiducia nel futuro.