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Il nostro ordinamento giuridico è stato a lungo permeato dalla violenza di genere: fino al 1956 era in vita lo jus corrigendi (il potere correttivo del pater familias che comprendeva anche la forza), e solo nel 1996 lo stupro è stato inserito tra i reati contro la persona. Nonostante oggi quelle leggi non esistano più, sopravvive l'immaginario che le alimentava. Per questo inasprire le pene non basta, è necessario aggiungere azioni sociali e culturali. L'esempio inglese

Il diritto e la violenza. Le tappe
di una lentissima evoluzione

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Nonostante la crescente sensibilità della gravità del fenomeno, nonostante la mobilitazione di associazioni femminili, femministe e, di recente, anche maschili per contrastare ogni forma di violenza di genere anche attraverso una condivisa riflessione critica sull’immaginario culturale maschile che supporta e talvolta addirittura giustifica queste violenze, il numero di “donnicidi” in Italia è costante pur in presenza di una complessiva riduzione degli omicidi [1]. Una “cultura della violenza" che sopravvive alle diverse (ed evidentemente ancor deboli) azioni di contrasto e continua ad alimentarsi di luoghi comuni sull’identità maschile, secondo il modello dell’uomo forte e autoritario, destinato “per natura” a possedere e a comandare. Ferite, percosse che uccidono, ma che – quando non uccidono – lasciano nelle vittime della violenza segni indelebili e più profondi di quelli esteriori. La violenza sulle donne, comunque essa si manifesti, come violenza fisica, sessuale, psicologica o economica, costituisce un crimine che annichilisce, toglie la stima di sé, sottrae ogni certezza, demolisce l’autostima.

A chi, sull’esempio di certa stampa superficiale e scandalistica, motiva la violenza maschile sulle donne indugiando sulla gelosia, il raptus o il “troppo amore”, si può rispondere che «ciò che arma la mano di una persona violenta è un irrazionale desiderio di possesso a tutti i costi» [2] all’interno di relazioni tuttora asimmetriche tra i due generi. E tuttavia è naturale chiedersi: come è possibile che nel nostro paese sia ancora così radicata una mentalità tanto arcaica, patriarcale, che rimanda la relazione intima al desiderio di dominio sul corpo delle donne?  Una mentalità che configura il rapporto di coppia in termini di controllo e non di fiducia e condivisione?

Qui entrano in gioco la storia, i miti, alcune radicate tradizioni, o meglio il “peso di certe tradizioni”, che per troppo tempo sono state considerate come un valore positivo anziché un evidente disvalore. Alla base delle percosse, delle lame e delle pallottole c’è un retaggio antico, che purtroppo perdura anche nell’Italia del 2000: «C’è – osserva Anna Baldry – la volontà di poter controllare, fin nei minimi dettagli, la vita di un’altra persona. Di punirla per essersi sottratta» a tale controllo.

Nel nostro Paese, i precetti religiosi sono stati a lungo piegati a giustificazione di un ruolo sottomesso delle donne al “capo-famiglia”, prima il padre e poi il marito; i valori, le tradizioni e persino le leggi che consideravano la violenza domestica contro donne e minori un “fatto naturale”, normale, addirittura giustificabile e socialmente accettato sono state dominanti per un tempo superiore a quanto si possa immaginare, rendendo a lungo opaca, se non invisibile, la violenza di genere proprio perché essa coincideva con quei valori.

Il nostro ordinamento giuridico è stato, del resto, permeato a lungo di violenza, alimentandosi di disvalori considerati “valori insopprimibili” e di un “immaginario patriarcale” che ha segnato profondamente la storia e il diritto dell’Europa medievale, moderna e contemporanea [3].

Basti pensare che, dopo l’entrata in vigore della nostra Costituzione e, in particolare dell’art. 29 che proclama la “eguaglianza morale e giuridica dei coniugi”:

- solo nel 1956 la Corte di Cassazione ha deciso che al marito non spettava nei confronti della moglie e dei figli lo jus corrigendi (art. 571 c.p.), ossia il potere educativo e correttivo del pater familias che comprendeva anche la coazione fisica;

- solo tra il 1968 e il 1969 la Corte Costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 559 del codice penale che puniva unicamente l’adulterio della moglie;

- solo nel 1975 il nostro ordinamento giuridico ha sostituito la famiglia strutturata gerarchicamente con un nuovo modello di famiglia paritaria;

- solo dopo la legge n. 442 del 5 agosto 1981, che ha abrogato la rilevanza penale della causa d’onore, la commissione di un delitto perpetrato per salvaguardare l’onore proprio e della propria famiglia (art. 587 c.p.) non sarebbe stato più sanzionato con pene attenuate rispetto all’analogo delitto di diverso movente, cancellando così il presupposto che l’offesa all’onore arrecata da una condotta “disonorevole” costituisse una provocazione gravissima tanto da giustificare la reazione dell’“offeso”;

- e sempre dopo tale legge del 1981 non avrebbe trovato più spazio nel nostro ordinamento l’istituto del “matrimonio riparatore” (art. 544 c.p.), che prevedeva l’estinzione del reato di violenza carnale nel caso in cui lo stupratore di una minorenne accondiscendesse a sposarla, salvando l’onore della famiglia;

- solo nel 1996, dopo circa vent’anni di iter legislativo, sarebbe stata approvata la legge n. 66 che, nel dettare nuove “Norme sulla violenza sessuale”, trasferiva questo reato dal Titolo IX (Dei delitti contro la moralità pubblica e il buon costume) del codice penale al Titolo XII (Dei delitti contro la persona).

Ritardi che sono espressione evidente delle resistenze e della difficoltà di estirpare nel nostro Paese le radici delle asimmetrie tra i sessi e, di conseguenza, della violenza di genere.

Oggi quell’immaginario patriarcale non è più presente nelle leggi, nei codici e nella giurisprudenza, ma ha lasciato segni profondi ed evidentemente continua a sopravvivere nei comportamenti di molti uomini.

E allora, che fare? A un problema complesso si devono dare risposte articolate che affrontino la questione secondo un approccio integrato, capace di mettere in campo strategie e interventi di diversa natura.

Interventi di vario tipo, non limitati all’inasprimento delle pene a carico dell’autore della violenza. La repressione è necessaria, ma da sola non basta. Oltretutto, la punizione – indubbiamente indispensabile, anche per l’effetto deterrente che può esercitare quando è dotata di efficacia e di effettività – in ogni caso interviene dopo che la violenza ha avuto luogo e deve essere affiancata da altre misure che abbiano la capacità di prevenire la violenza o comunque di snidarla prima che si manifesti in tutta la sua brutalità.

Ben vengano, pertanto, gli interventi legislativi, da quelli di carattere strettamente penale, intesi soprattutto a rafforzare l’effettività delle sanzioni, a specifiche “leggi anti-violenza”, di cui quasi tutte le regioni italiane si sono dotate. Ben venga la normativa anti-stalking, frutto di una nuova sensibilità del legislatore italiano verso i temi della violenza, e ben vengano i provvedimenti adottati nel 2013, ovvero la ratifica della Convenzione di Istanbul, considerata il trattato internazionale di più ampia portata in materia, e la conversione in legge del decreto n. 93/2013 (L. 15 ottobre 2013, n. 119).

Accanto agli interventi normativi, sia di tipo punitivo che preventivo, devono però essere adottati anche maggiori strumenti di intervento sociale (sportelli di ascolto e di denuncia, presidi anti-violenza nei vari ambiti territoriali, case-rifugio per donne maltrattate, attivazione di linee telefoniche dedicate, assistenza attraverso personale specializzato, ma soprattutto istituzionalizzazione dei Centri anti-violenza esistenti etc.) e poi interventi che genericamente definirei culturali e formativi diretti sia a “professionalizzare” le forze di polizia e gli operatori sanitari ed educativi, affinché acquisiscano maggiore sensibilità, capacità di lettura e riconoscimento del problema, sia a realizzare in tutte le scuole di ogni ordine e grado progetti per divulgare la cultura di genere, per combattere gli stereotipi, per educare i giovani al concetto di parità e pari opportunità. Non attraverso un isolato incontro o una conferenza, ma all’interno di specifici percorsi formativi destinati a sensibilizzare, sin dalla più tenera età, alla cultura del rispetto reciproco e della valorizzazione delle differenze e al contrasto verso qualsiasi forma di discriminazione.

Insomma, un sistema integrato di interventi simile al “metodo Scotland” messo in atto nel Regno Unito dalla ministra laburista Patricia Scotland, che è riuscita nella sola Londra a ridurre il numero di femminicidi da 49 a 5 all’anno.

È ovvio che un tale sistema non può essere realizzato con le poche risorse messe a disposizione dalla recente legge «per il contrasto della violenza di genere»: non ci vogliono solo idee chiare e obiettivi condivisi, non bastano gli attuali centri anti-violenza che – pur nella precarietà in cui sono costretti ad operare – offrono eccellenti servizi alla comunità, non è sufficiente la rete di associazioni femminili e maschili mobilitate nel condannare e contrastare la violenza, ma è necessario, anche e soprattutto, poter contare su un ceto politico e amministrativo convinto che l’impegno per prevenire e ridurre il costo umano e sociale della violenza di genere non è una spesa ma è un investimento, una misura che contribuisce anche al sostegno dell’economia del Paese. Meno donne maltrattate in famiglia significa, infatti, più donne serene e produttive nei luoghi di lavoro e risparmi per servizi giudiziari, cure mediche e servizi sanitari, sociali e legali. A vantaggio dell’intera comunità, maschile e femminile.

 
Nella foto: I “doveri delle spose” in una sacra predicazione della sacra famiglia che si tenne a Fellicarolo tra fine giugno e primi di luglio del 1895.

[1] Cfr. Ministero dell’Interno, Rapporto sulla criminalità in Italia. Analisi, Prevenzione, Contrasto, i cui dati sono stati resi noti il 15 agosto 2013.

[2] Così Gabriella Moscatelli, presidente di “Telefono Rosa”.

[3] Marco Cavina, Per una storia della “cultura della violenza coniugale”, in «Genesis. Rivista della Società Italiana delle Storiche», IX/2, 2010, p. 19.