A proposito del Codice di autodisciplina di imprese responsabili in favore della maternità diffuso dal Ministero per la famiglia. Il commento di una delle principali esperte in Italia di imprenditoria femminile, cambiamento organizzativo, diversity management
Il Ministero per la famiglia, la natalità e le pari opportunità, sotto la guida di Eugenia Roccella, ha lanciato pochi giorni fa il Codice di autodisciplina di imprese responsabili in favore della maternità, una misura senza budget a cui le imprese possono aderire volontariamente – la prima è stata Plasmon. La misura si articola in tre aree di impegno: misure di sostegno delle carriere delle madri, prevenzione e cura dei bisogni di salute, adattamento dei tempi e modi di lavoro.
Se si svegliasse mia nonna, penserebbe di essere tornata indietro di cinquant’anni, di trovarsi in mano un documento vecchio e offensivo, anche dalla prospettiva di una che aveva settant’anni negli anni Novanta. Offensivo per le donne, gli uomini, i bambini e le bambine. Ma soprattutto per le donne e gli uomini che lavorano da anni nelle imprese che la ministra vorrebbe si 'autodisciplinassero'.
Perché la maggior parte delle cose che il codice chiede alle imprese di fare, le imprese le fanno già. Da molti anni e molto meglio: le imprese più innovative, più competitive e attente hanno da almeno trent’anni programmi a sostegno delle donne, delle carriere delle madri, della cura dei figli.
Sono programmi che sono nati, così come li vorrebbe la ministra oggi, negli anni Cinquanta, e che si sono evoluti verso una visione di genitorialità condivisa, moderna e contemporanea. Una visione nella quale non sono solo le madri a dover essere sostenute per l’assoluto rilievo della maternità, ma sono la genitorialità e i diritti dell’infanzia a trovarsi al centro dei progetti.
Perché la retorica del sosteniamo le madri perché facciano più figli non funziona: non è il materno a essere in crisi; piuttosto, una delle cause della fuga dalla maternità è l’eccesso di materno. A generare esperienze individuali di maternità vissute sempre più in solitudine, cioè, è quell’idea che la cura sia una vocazione naturale del femminile e non un atteggiamento di persone adulte responsabili nei confronti di chi ne ha bisogno.
Le madri, infatti, sono sempre più sole: a gestire i figli, a difendere il lavoro e le proprie scelte; sole in assenza di infrastrutture sociali, servizi adeguati, partner la cui partecipazione alla cura venga sostenuta e promossa. Sole a cercare un equilibrio, che solo loro devono trovare, tra il lavoro di cura, il lavoro retribuito e quel che resta, se resta, del tempo per sé.
Se si vuole davvero che nascano più bambine e bambini – senza fermarsi per il momento a chiedersi se sia compito di un ministero influenzare scelte di genitorialità che dovrebbero rimanere assolutamente insindacabili, individuali, nella migliore delle ipotesi di coppia – serve che si cambi il paradigma, che si dica finalmente che i figli sono delle famiglie – dei padri, delle madri, delle famiglie allargate – e che è la società a dover essere ripensata per essere sempre più attenta e vicina ai più piccoli e alle più piccole.
Non servono codici di autodisciplina, a budget zero, che chiedano alle imprese di tornare indietro su programmi che realizzano già, con visioni più ampie e approcci più innovativi.
Serve che il ministero faccia pressione perché ci siano più investimenti nelle infrastrutture sociali: asili, tempo pieno nelle scuole elementari e medie, dopo-scuola e centri estivi pubblici e di qualità, servizi per bambini e anziani non autosufficienti, sanità pubblica accessibile, trasporti pubblici efficienti in città e in periferia, spazi all’aperto per i bambini e le bambine che permettano di fare sport al sicuro e a costi sostenibili.
Serve chiedere alle imprese di potenziare la retribuzione del congedo parentale e investire perché siano anche i padri a usufruirne. Serve una campagna che valorizzi il contributo dei padri e delle madri nella cura dei figli. Serve riconoscere tutti i bambini, le bambine e le famiglie.
E se davvero vogliamo chiedere, dall’alto di un ministero, qualcosa alle imprese, chiediamo loro di investire risorse, di compartecipare in servizi sul territorio, di sponsorizzare servizi, di contribuire a costruire un contesto sociale in cui le risorse siano più accessibili, le disuguaglianze meno stridenti, il futuro meno coercitivo, e dove torni la voglia di progettarlo per viverlo insieme."