Politiche

He-cession o she-cession? Mentre negli Usa si dibatte sul sesso della crisi, vengono fuori i dati sugli effetti del piano Obama: gli aiuti sono andati paritariamente al lavoro femminile e maschile. Una piccola lezione all'Europa sull'efficacia delle infrastrutture sociali, e sui pericoli dei pacchetti generalizzati di austerità

Il genere della crisi
e le manovre finanziarie

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Da noi la recessione è femmina per regola grammaticale pacificamente accettata. Negli Stati Uniti dipende. All’inizio la crisi era maschio e per aggirare la grammatica inglese che non ammette differenziazione si è innovato il linguaggio. A giugno del 2009 Reihan Salam e David Zicenko hanno introdotto il termine he-cession su due giornali importanti - Usa Today e Foreign Policy - per sottolineare che la perdita di posti di lavoro era sproporzionatamente a carico degli uomini in seguito al tracollo occupazionale dell’industria pesante, delle costruzioni e della finanza, settori tradizionalmente maschili. La foga di attribuire un genere alla crisi ha investito persino l’accademia dove ha fatto capolino il termine man-cession (Sierminska e Takhtamanova 2011).

L’innovazione del linguaggio traduceva umori che permeavano anche la retorica politica. Poco prima che sul web si accendesse il dibattito sull’articolo da preporre alla recessione – he o she ? – Obama e la sua amministrazione lavoravano a mettere insieme il pacchetto di misure per stimolare l’economia - l’American Recovery and Reinvestment Act (ARRA). La manovra doveva essere imperniata sugli investimenti in infrastrutture fisiche, sui tagli alle tasse e sugli investimenti in istruzione, ma la retorica che l’accompagnava metteva al primo posto la creazione di "shovel ready jobs". Questa metafora è di traduzione incerta (lavori "badile in mano", cioè pronti a partire?) ma di indubbia efficacia nel comunicare due obiettivi, la creazione immediata di posti di lavoro e la priorità assoluta accordata ai settori delle infrastrutture fisiche, quelli a prevalente occupazione maschile. Quando scendeva nel concreto Obama prometteva: "…rimetteremo la gente al lavoro a ricostruire le nostre strade e i nostri ponti che cadono a pezzi, a modernizzare le scuole che non sono all’altezza del compito per i nostri figli, a costruire centrali eoliche e pannelli solari, a produrre automobili a basso consumo di carburante ed energie alternative..”.

Così presentato, il pacchetto ARRA prestava il fianco a critiche come quella di Randy Abelda, economista dell’università di Boston-Massachussets. "...Sì, abbiamo bisogno di ponti, strade e scuole. E dobbiamo anche investire nell’industria verde, stimolando così l’economia e mettendo le basi per una solida crescita nel futuro. Ma manca un nesso in questo pacchetto, che si guardi dal lato dell’occupazione o da quello degli investimenti. Quel nesso sono le donne..’. (editoriale del Boston Globe, 28 novembre 2008).

La sorpresa viene dai dati a consuntivo. Se si analizza la composizione effettiva dei fondi spesi, le infrastrutture fisiche non costituiscono affatto la componente più pesante del pacchetto. Anzi, a ben guardare, non superano la spesa in "infrastrutture sociali". Secondo informazioni di fonte governativa , la spesa in infrastrutture fisiche non ha assorbito più del 14% del totale, e anche se vi si aggiunge quella erogata ai settori dell’energia e dell’ambiente non si va oltre il 17%. Per contro, i fondi destinati ad infrastrutture sociali – istruzione, sanità e servizi sociali, dove prevale l’occupazione femminile - sono stati pari al 20% e sono andati a ripianare il debito dei vari stati in questi ambiti. Ad essi andrebbe aggiunta parte del 3% di spesa per la tecnologia della salute e la ricerca (non energetica), insomma quasi un quarto del pacchetto. Per giunta, circa metà della grossa fetta destinata al taglio delle tasse ha avuto come target la popolazione anziana o a basso reddito, due segmenti ad alta presenza femminile. La stessa Abelda ha recentemente riconosciuto che "…con tutta probabilità i fondi ARRA sono stati ripartiti in modo equilibrato fra uomini e donne..." (Abelda, 2011).

 

 

Rimane da spiegare cosa sia successo tra la fase dell’annuncio e quella dell’effettiva erogazione dei fondi. E’ possibile che alcune lobby femminili abbiano fatto sentire la propria voce, e con successo. Centri studi come l’Institute for Women's Policy Research, da sempre impegnati in battaglie al fianco delle donne, trovano ascolto nella politica americana, e forse più nei ranghi dell’amministrazione federale che in quelli dei partiti. Ma è altrettanto plausibile che la retorica iniziale che ha accompagnato il pacchetto di stimolo mirasse ad assecondare gli umori del momento, mentre i provvedimenti effettivi siano stati decisi in base alla presunta efficacia o alla necessità di garantire una coesione sociale minacciata dalla crisi.

L’efficacia c’è stata, anche se il presunto ordine di grandezza oscilla in un intervallo ampio. Si stima infatti che il pacchetto ARRA abbia sostenuto il Pil statunitense per un ammontare compreso fra il +1,5 e il +4,1 percento. Ciò deve far riflettere su un certo tipo di retorica che continua ad aleggiare sul dibattito nostrano. In questi giorni in cui gli appelli a varare misure per la crescita si fanno più insistenti, la formula che mette tutti d’accordo è "investire sui giovani" o "su giovani e donne". Di cosa sia fatto questo investimento non è chiaro, a meno di non comprendere nel termine le liberalizzazioni e la riforma del mercato del lavoro. Così l’investimento in infrastrutture – sottointeso fisiche – finisce col riemergere nel dibattito come soluzione concreta, nonostante che molti Italiani abbiano imparato a dubitare dei benefici collettivi di ponti faraonici e alcuni abbiano messo in discussione il rapporto costi benefici della TAV (si veda per esempio l'articolo di Silvia Maffii e Marco Ponti sulla sostenibilità della tratta Torino-Lione, su lavoce.info, 26 luglio 2011).

Persiste in questo modo un’opposizione surrettizia fra un qualche potere taumaturgico dell’investimento in infrastrutture fisiche da una parte e, dall’altra, l’improduttività della spesa in infrastrutture sociali, capace unicamente di aggravare il debito.

Eppure questo tipo di retorica è molto meno giustificata qui e ora di quanto lo fosse negli Usa del 2008 e del 2009. Un pacchetto di rilancio è necessario per evitare una seconda recessione che rischia di essere molto più she-cession della prima. Le ragioni sono note ma vale la pena ripercorrerle brevemente e collocarle nel contesto europeo. In tutta Europa, Italia compresa, l’occupazione femminile è stata relativamente risparmiata dalla perdita di posti di lavoro nei due anni iniziali della crisi grazie soprattutto al fatto di essere concentrata nei servizi e nel settore pubblico. Il ritorno di recessione che ora si teme rischia invece di colpire servizi e settore pubblico in modo altrettanto pesante di quei settori a più forte rappresentanza maschile che hanno risentito pesantemente della crisi all’inizio della medesima.

Una delle spinte recessive del momento viene infatti dalle misure di austerità che la stragrande maggioranza dei paesi europei hanno varato o si apprestano a varare per ridurre il debito pubblico. Tali misure tendono da un lato a ridurre il potere d’acquisto delle famiglie con conseguente riduzione della domanda per beni ma anche servizi, dall’altro finiscono per ridimensionare il settore pubblico in termini sia di occupazione che di salari. Su un campione di 19 paesi europei l’elenco delle più importanti misure di austerità già varate o concordate per i prossimi anni include, dal lato della spesa, riduzioni o congelamenti di stipendio dei dipendenti pubblici (11 paesi); riduzione o blocco del personale nel settore pubblico (9 paesi); riforme delle pensioni che comportano l’allungamento dell’età pensionabile per uomini e donne o la parificazione per le donne (8 paesi); tagli o restrizioni a sussidi o servizi di cura (8 paesi); riduzioni delle agevolazioni agli affitti o degli assegni familiari (6 paesi). Dal lato delle entrate 6 paesi hanno previsto aumenti di tasse, 5 aumenti dell’Iva, 2 aumenti del corrispettivo dovuto dall’utente per servizi pubblici sussidiati, dalle prestazioni sanitarie ai trasporti (Bettio et al. 2011). L’Italia non è inclusa nei 19 paesi cui si riferisce questo elenco, ma molte delle misure contenute nelle manovre finanziarie del 2011 figurano nel medesimo.

Questa volta però mal comune non è mezzo gaudio. La maggioranza dei paesi membri dell’Unione stanno varando contemporaneamente pacchetti di austerità, perciò entro i confini europei è vano sperare di compensare la riduzione di potere d’acquisto e quindi di domanda in casa propria con un’espansione in casa altrui. E laddove pesanti manovre di austerità hanno già cominciato a sortire effetti, le ripercussioni sull’occupazione femminile non sono di buon auspicio. In Spagna, Grecia e Portogallo, in particolare, il tasso di occupazione femminile è diminuito più di quello maschile nell’ultimo trimestre per cui si dispone del dato (il terzo del 2011 per la Spagna, il secondo per Grecia e Portogallo). Da noi, i dati sull’occupazione rilasciati dall’Istat qualche giorno fa destano qualche preoccupazione. A fine settembre 2011 il tasso di occupazione delle donne (destagionalizzato) era fermo da due trimestri, mentre il tasso di disoccupazione era balzato all’insù di più di un punto su base trimestrale. E il tutto è in controtendenza rispetto all’andamento per i maschi. (http://www.istat.it/it/archivio/49705).

Sarebbe sciocco citare questi dati per rinverdire il dibattito he-cession contro she-cession come se si trattasse di una gara fra i sessi, poiché la gara è al ribasso e tutti perdiamo. Ciò detto, le prospettive occupazionali sono tali da mettere ulteriormente in discussione quella visione della politica economica che esita a riconoscere cogenza e potenzialità dell’investimento in infrastrutture sociali per poter risalire la china. Fa piacere sottolineare un’eccezione importante, le proposte del ministro Barca per il pacchetto di rilancio del Mezzogiorno dove l’investimento in servizi per bambini e anziani è fra le misure qualificanti, con tanto di target da perseguire e monitorare (http://www.dps.tesoro.it/obiettivi_servizio/servizi_infanzia.asp).

 

Abelda R. (2011) ‘Gender impacts of the "Great Recession” in the United States’ 

Bettio F., Corsi M., Samek Lodovici M., and Verashchagina A. (2011) ‘The impact of the economic crisis on the situation of women and men’, Joint Report prepared by the EGGE and EGGSI networks for the European Commission, in corso di pubblicazione.

Sierminska, E. and Takhtamanova, E. (2011) ‘Job Flows, Demographics, and the Great Recession’ in H. Immervoll, A. Peichl and K.Tatsiramos (eds) Who Loses in the Downturn? Economic Crisis, Employment and Income Distribution, Emerald Group Publishing Limited.