Di soldi, sorellanza e disparità di genere. Una conversazione con Azzurra Rinaldi, economista femminista e autrice del saggio Le signore non parlano di soldi uscito per Fabbri a febbraio
Soldi, sorellanza e disparità di genere. Ne parliamo con Azzurra Rinaldi, economista femminista e direttrice della School of Gender Economics dell'Università degli Studi di Roma Unitelma Sapienza, nonché attivista per i diritti delle donne. A febbraio è uscito, con Fabbri Editore, il suo libro che si intitola Le signore non parlano di soldi.
Iniziamo dal titolo del tuo libro: possiamo dire che è un esordio, per il pubblico non accademico, con tanta voglia di rompere un tabù? Come è nata l’idea di scriverlo?
È stato un tentativo di uscire fuori dalla bolla in cui vivo nel quotidiano, dell’accademia, dei social media ma anche dalla bolla dell’algoritmo della vita vera, arrivando con concetti che studio e insegno a un pubblico più ampio, e aiutando coloro che lo vogliono ad acquisire più consapevolezza sulla disuguaglianza di genere. Anche perché in alcune culture, tra cui in quella italiana, noi donne veniamo educate a non parlare di denaro, perché una signora che ne parla è considerata volgare. È un fatto che non aiuta. Può piacere o non piacere, ma il sistema in cui viviamo è un sistema capitalistico che è basato sulla produzione e sull'uso del denaro. Quindi rimanere fuori dalla produzione del denaro, dal suo utilizzo ma anche semplicemente dal discorso sul denaro ci spinge fuori dal potere. E non solo dal potere sugli altri ma piuttosto dal potere sulla nostra vita; qualunque cosa vogliamo fare, formarci, creare un'impresa, decidere di uscire da una relazione in cui non vogliamo più stare, tutto questo si fa attraverso il denaro. Bisogna parlarne quindi, quanto più possibile, per rendere questo tipo di discorso naturale. E questa è l’idea del libro.
Il libro, come scrivi nell’introduzione, è stato scritto con una sorta di leggerezza che si vuole avvicinare alla narrativa. Il suo punto forte sono però dei dati statistici nei quali si rispecchia e concretizza la realtà della disuguaglianza di genere. Che immagine viene fuori da questi dati?
Sì, i dati decisamente aiutano a inquadrare un fenomeno che viene discusso. Certe volte quando parlo dei temi della discriminazione di genere qualcuno risponde che non c'è più bisogno di parlarne, perché ormai le donne sono ovunque. Ecco, qui i dati lo smentiscono facilmente: se andiamo a vedere ad esempio la situazione mondiale di quante donne sono CEO, siamo abbondantemente sotto il 10%. A volte noi guardiamo il mondo con delle lenti e portando alla luce il dato, ci aiuta a rimanere aderenti alla realtà e alla verità. È dunque, in qualche maniera, un grande strumento di consapevolezza. Lo si vede bene riflettendo sulla disparità sul mercato del lavoro. Certe volte, quando si pensa alle donne che non lavorano, c'è un atteggiamento quasi paternalistico, di commiserazione. Invece, la verità è che quando le donne non lavorano - e questo i dati ce lo dicono chiaramente - è tutto il sistema che ne risente. Innanzitutto si produce meno ricchezza all'interno della famiglia, quindi le famiglie sono più povere; allo stesso tempo, fanno meno figli, per cui ne risente la natalità. Quando invece le donne lavorano, una parte della ricchezza che producono viene prelevata dallo stato sotto forma di gettito fiscale e quindi si traduce in un incremento di benessere per tutta la popolazione. Dobbiamo evidenziare, allora, che quando parliamo di disuguaglianza sul mercato del lavoro, non si tratta di un problema delle donne, bensì di un problema collettivo di produzione in maniera inefficiente.
Nel discorso economico inserisci anche concetti come quello di “sorellanza”: come spieghi il legame tra questi due aspetti?
Anche in questo caso ci sono di appoggio i dati statistici, sottolineando che le aziende con una maggiore diversità al loro interno (per intenderci con più donne che ricoprono ruoli di rilievo) sono quelle che vantano i migliori risultati proprio in termini di performance economica. Quello della “sorellanza” è quindi un tema potentissimo, su cui c’è, però, ancora tanto da lavorare. Come del resto sul tema della rappresentanza. Sin da piccole ci hanno insegnato che le donne sono le peggiori nemiche delle donne e questo è probabilmente una delle maggiori vittorie del patriarcato. La verità è che spesso quando una donna arriva dove voleva arrivare, lo deve al supporto di almeno un'altra donna se non di un gruppo di donne. Riconoscere la centralità delle relazioni fra donne, che non vuol dire che ci dobbiamo essere tutte simpatiche, significa imparare a supportare una rete di relazioni positive fra il genere femminile, con lo scopo di accrescere il bene comune. Anche a livello economico.
Sostieni che c’è ancora tanto da lavorare sulla rappresentanza e sulla sorellanza. Quali strumenti ritieni più efficaci per arrivare al cambiamento?
È un percorso di consapevolezza e la consapevolezza la dobbiamo innanzitutto all'istruzione. Che, per voler precisare, non deve essere per forza percepita come l’istruzione formale. Bisogna comunque volersi educare sempre, leggere, confrontarsi. Delle volte, anche inconsapevolmente, in noi donne scattano alcuni meccanismi di patriarcato interiorizzato, piuttosto difficili da scardinare. Averne coscienza è fondamentale. Un'altra grande questione si colloca attorno al linguaggio che usiamo. È un tema che in realtà ha a che fare con il posizionamento. Allora dobbiamo capire che scegliere di parlare in un certo modo è un atto politico. Quindi, passando per la consapevolezza e l'istruzione si realizza che le nostre scelte hanno comunque un effetto politico. Bisogna rendersene conto. E parlarne.
Il tema della rappresentanza o piuttosto della mancata rappresentanza ha forti ripercussioni anche sul mercato del lavoro. Qual è la via d’uscita secondo te?
Il problema è a monte: già dividere le persone nel lavoro per genere è un sistema sub ottimale – magari le donne sarebbero delle bravissime ingegnere e gli uomini dei bravissimi maestri. Insistere sugli schemi culturali radicati da un lato risulta semplicemente ingiusto e dall’altro invece può non essere massimamente efficiente. Quindi, in realtà, in questa maniera si perde due volte. Per superare tale situazione bisogna ritornare sull’istruzione, fornendo delle prospettive diverse (o alternative) sin da quando le bambine e i bambini sono piccoli. E lavorare anche, chiaramente, su chi forma. Poi c'è infatti il grande tema della rappresentanza (o non rappresentanza): cioè finché le donne sono estranee ad alcuni ambienti o ad alcune posizioni, come praticamente tutte le posizioni di potere, è ovvio che nelle bambine in particolare si attivi quello che chiamiamo dream gap, ossia il fatto che noi pensiamo perfino di non poter sognare certe situazioni. Anche in questo caso c’è un lavoro enorme da svolgere: prima di tutto culturale e in secondo luogo un lavoro di smantellamento dei centri di potere odierni.
Nel libro poni una domanda fondamentale, che è quanto a tutti e tutte costa la disparità di genere, come recita il sottotitolo. Io, per concludere, ti vorrei chiedere invece quali sono, secondo te, gli ambiti più penalizzati da questa disuguaglianza?
Senza dubbio il mercato del lavoro e l’ambito della cura. In entrambi i casi si tratta di ripercussioni sistemiche che penalizzano tutto il paese, quindi non riguardano soltanto gli uomini e le donne. Il discorso della condivisione della cura e della genitorialità va anche oltre – vuole ridare una centralità alla figura paterna, che invece quando si parla di cura è sempre messa al margine.
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