Dati

Le donne sono il 30% del lavoro autonomo, e ne vivono le profonde trasformazioni. In uno studio del Politiecnico di Milano, le analisi sulla crescita delle partite Iva, la femminilizzazione delle professioni, il gap nelle retribuzioni, le aree di "finta" autonomia. E mentre il lavoro cambia, il welfare non si adegua e brilla per assenza

La solitudine
delle partite Eva

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Il lavoro autonomo rappresenta in Italia il 23% dell’occupazione complessiva nazionale contro una media europea di solo il 14%. Considerata la netta maggioranza di piccole e piccolissime imprese che caratterizza il nostro sistema produttivo si puó ascrivere al lavoro autonomo quasi il 35% dell’occupazione totale, se si contano anche i loro dipendenti. Le donne ne rappresentano circa il 30% e negli ultimi anni sono state la componente che ha vissuto la maggiore trasformazione: il crollo delle coadiuvanti famigliari é stato compensato in prevalenza da una triplicazione del numero di professioniste, passato dal 7% del 1993 al 20,3% del 2010. Infatti, le trasformazioni che hanno caratterizzato il sistema produttivo del nostro paese si sono riversate su questa parte della forza lavoro italiana, moltiplicandone la complessità.

Grazie alla prima ricerca esaustiva sul mondo delle partite IVA realizzata dal Laboratorio di Politiche Sociali del Politecnico di Milano e sostenuta dal Consiglio Italiano per le Scienze Sociali, si é potuti entrare un po’ più nel merito della complessa questione della femminilizzazione del lavoro autonomo. Oggi il tasso di femminilizzazione delle professioni é giunto ormai al 29,2% sulla base di un trend di crescita che dura da molti anni. Le motivazioni alla base di questo incremento sono diverse, ma principalmente iscrivibili a un migliore tasso di riuscita scolastica delle donne e a un aumento delle studentesse anche nelle professioni più tradizionalmente maschili.

Tale crescita può essere interpretata da un lato come conseguenza di un maggiore orientamento giovanile verso occupazioni creative ed espressive e dall’altro di una diffusa convinzione che l’ottenimento di una posizione professionale sia di per sé sufficiente per garantire una posizione di prestigio sociale sia da un punto di vista reddituale che di garanzia dell’occupazione[1].  Per esempio, la maggior parte degli architetti laureati negli ultimi anni é donna (circa il 55%), così come avviene per medicina e chirurgia (64%) e per giurisprudenza (59%) (Fonte: Statistiche sui Laureati, MIUR, 2010). Da una tale partecipazione femminile all’istruzione superiore ne discende necessariamente una maggiore propensione a entrare nel mercato del lavoro in posizioni qualificate: questo significa per alcune professioni a tradizione autonoma (come avvocati, architetti, medici e commercialisti) una loro progressiva femminilizzazione.

Tale divario tuttavia nasconde ancora persistenti disuguaglianze di genere, sia da un punto di vista di posizione della professione che da un punto di vista reddituale. Non solo le donne tendono a essere segregate nelle professioni meno redditizie (come per esempio il servizio sociale), ma anche quando svolgono gli stessi compiti vengono valutate (e retribuite) meno degli uomini[2]. Dai dati Banca d’Italia 2010, è possibile stimare una differenza salariale di circa 7.000 euro tra indipendenti uomini e donne, una differenza che è superiore a quella riscontrata tra i dipendenti. Tali dati vanno tuttavia considerati con molta prudenza: nel mondo del lavoro autonomo è molto difficile fare una valutazione puntuale dei differenziali salariali, per via dell’inaffidabilità dei dati sul reddito a causa di una persistente opacità del tasso di evasione.

La progressiva femminilizzazione del lavoro autonomo è nel frattempo avvenuta nella totale indifferenza dello stato che non si è fatto carico di offrire adeguati politiche nel supportarne le specificità e le esigenze di conciliazione, né di proteggerne adeguatamente le figure più fragili. Tornando alla ricerca coordinata da Costanzo Ranci, vi si afferma che i lavoratori autonomi debbano essere annoverati tra i vincitori relativi della transizione sociale ed economica a un’economia post-industriale. Tuttavia, gli stessi ricercatori ricordano che a fianco delle professioni più tradizionali, le fila del lavoro autonomo si sono arricchite di una parte per nulla trascurabile di lavoratori molto fragili nella loro indipendenza sovrarappresentati tra giovani e donne. Se guardiamo nel dettaglio dei dati, infatti, risulta che il 7% degli indipendenti in Italia si iscrive in un’area di totale mancanza di autonomia. Tale gruppo è significativamente più giovane, più istruito e più femminilizzato rispetto a chi ha completa indipendenza nello svolgimento del suo lavoro[3]. Perciò, solo in parte questi lavoratori hanno potuto godere della crescita della ricchezza e del reddito che ha generalmente caratterizzato il lavoro autonomo negli ultimi anni e spesso sono rimasti confinati nella sua componente più vulnerabile.

La situazione non migliora anche per chi, come i professionisti, dovrebbe essere annoverato tra i vincenti della cosiddetta società della conoscenza, come dimostrato dal fatto che le figure più fragili sono spesso giovani ad alta qualificazione appena entrati nel mercato professionale. Stretti tra il desiderio di vedersi realizzati nel lavoro che si è sempre sognato e il sempre più crescente affollamento del mercato professionale, chi entra in una professione si trova ad affrontare un lungo percorso di affermazione che non sempre sfocia nel raggiungimento di una piena autonomia. Se poi il giovane in questione è donna, la difficoltà ad avviare un percorso di autonomia professionale molto spesso si associa a una complessa gestione della conciliazione famigliare.

Spesso, la causa principale delle difficoltà femminili è la mancanza di un adeguato supporto da parte dello stato in tema di servizi e politiche di conciliazione. Frequentemente, infatti, il percorso di stabilizzazione dell’attività lavorativa avviene proprio in quegli anni in cui alle donne è richiesto il maggiore impegno famigliare, che in Italia è ancora sbilanciato a loro sfavore. L’impianto fortemente familistico del sistema di welfare italiano non aiuta, visto che delega alle famiglie la maggior parte dei compiti di cura, sia degli adulti in condizione di dipendenza sia dei bambini. Tale compito é stato tradizionalmente svolto in passato dalle donne, che oggi vivono un sovraccarico tra il loro comprensibile desiderio di realizzarsi in ambito lavorativo e il peso famigliare scaricato quasi tutto sulle loro spalle (il 67% del lavoro famigliare é svolto dalle donne, anche nel caso si considerino le famiglie a doppio reddito, con più alta scolarità e residenti nel centronord[4]). Non a caso, l’Italia ha il più basso tasso di fertilità in tutta Europa.

La situazione é peggiore per le professioniste e più in generale per le lavoratrici autonome. I periodi di maternità sono particolarmente rischiosi per il mantenimento della concorrenzialità della propria attività a causa dell’interruzione del rapporto con i propri clienti. Nonostante sia presente un sostegno alla maternità generalizzato (per quanto basso e diseguale tra le diverse categorie di professioni considerate), le professioniste sono spesso costrette ad anticipare il rientro nel mercato del lavoro anche prima dei termini obbligatori previsti dalla legge per mantenere in vita la propria rete di contatti con i clienti, con i fornitori e con i colleghi. Il rischio é altrimenti quello di rientrare nei tempi stabiliti ma dover ricostruire la propria attività da zero, con tutto ció che questo comporta dal punto di vista reddituale e di crescita professionale. Non solo, se poi anche riuscissero in questo difficile compito, la conciliazione dell’attività lavorativa é spesso subordinata alla disponibilità di cura della generazione (femminile) precedente. Questo perché molto spesso anche quando i servizi ci sono, sono difficilmente adattabili alle esigenze di flessibilità tipiche del lavoro autonomo.

Al momento lo stato non si é fatto carico di risolvere queste tensioni crescenti tra donne, lavoro autonomo e conciliazione. Per ora, le professioniste hanno risposto con una certa dose di spirito imprenditoriale a queste loro esigenze e si associate con i propri colleghi per riuscire a tenere in piedi le loro organizzazioni anche nei periodi in cui il ciclo naturale della vita le rende maggiormente vulnerabili. Tuttavia, é un’operazione che non sempre puó riuscire e é molto esposta ai rischi insiti alle fluttuazioni di mercato. A tal proposito, dovrebbero essere benvenute nuove politiche che sappiano promuovere e sostenere queste micro-associazioni tra professionisti, ad esempio moltiplicando gli spazi di coworking per i freelance a prezzo agevolato e favorendone l’ingresso in modo particolare alle donne, che così non sarebbero costrette a sostenere i costi fissi della loro attività durante i periodi di maternità. Nello stesso tempo, i sistemi locali di welfare dovrebbero ripensare i servizi di assistenza all’infanzia rendendone più flessibili gli orari e l’accesso in modo tale ad avvicinarsi alle nuove esigenze dettate dalla società della conoscenza.

Infatti, il lavoro autonomo non è di per sé inconciliabile con i compiti famigliari. La possibilità di gestire i propri tempi di lavoro e di organizzare le proprie giornate in maniera più flessibile rispetto al lavoro dipendente costituisce un’eccellente opportunità per le donne che vogliono esercitare la propria professione e nello stesso tempo investire nella propria famiglia. In questo però dovrebbero essere maggiormente aiutate sia dallo stato sia dai propri compagni, per evitare il rischio di un sovraccarico tra vita lavorativa e vita privata che troppo spesso porta le donne a sacrificare l’ambizione lavorativa a spese della famiglia o viceversa.



[1]Clarke, M., 2000. The professionalisation of financial advice in Britain. Sociological Review, 48(1), pp.58–79.

[2]Vedi capitolo di Mirella Giannini “I differenziali di genere nelle professioni ad alto reddito”,

[3]Parlando più nel dettaglio di questo insieme di professionisti vulnerabili, scopriamo che nel 55% dei casi sono donne, nel 37% dei casi sono over40 contro una media di circa il 65% di chi gode di completa autonomia, nel 31,6% una laurea mentre chi gode di completa autonomia ce l’ha nel 26% dei casi e sono perlopiù occupati nel settore dei servizi. Vedi capitolo di Ivana Fellini nel volume di Ranci (2012).