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La Casa delle donne Lucha y Siesta, nel quartiere Tuscolano a Roma, è a rischio di sgombero da parte di Atac, società che gestisce il trasporto pubblico della capitale, e che ha deciso di mettere in vendita lo stabile per risanare i conti. Le operatrici ci spiegano perché la casa deve restare dov'è

Lucha y Siesta deve
restare dov'è

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Foto: Sara Cervelli

A Roma, la Casa delle donne Lucha y Siesta, nel quartiere Tuscolano, sta vivendo un momento molto difficile a causa dell’incubo sfratto.

La palazzina anni Venti, in via Lucio Sestio 10, dove da più di dieci anni ha sede il centro anti-violenza, laico e femminista capitolino, che fornisce accoglienza e sostegno ai percorsi di autonomia per donne e bambine in difficoltà, è infatti proprietà dell’Atac, la società del trasporto pubblico della capitale. Che, in gravi condizioni finanziarie, intende adesso vendere lo stabile, utilizzato come deposito fino alla metà degli anni Novanta.

“Essenzialmente racconta a inGenere Simona, una delle attiviste della Casa il luogo dove ha sede il centro, nel momento in cui è stato occupato era abbandonato da circa dodici-quindici anni. In quel periodo si era reso palese l’aumento delle denunce fatte delle donne rispetto a violenze e maltrattamenti. I femminicidi erano in crescita, senza che ci fossero risposte adeguate al problema. A quel punto abbiamo pensato di poter contribuire prendendoci uno spazio sottratto all’abbandono per destinarlo a una funzione sociale”.

Lucha come un centro antiviolenza e insieme luogo di ascolto, orientamento, accoglienza, spazio di autodeterminazione e di immaginazione personale, negli anni ha aiutato tante donne, ottenendo un riconoscimento da diversi soggetti associativi e istituzionali, e divenendo un importante punto di riferimento per l’intero quartiere.

Da quando nel 2008 un gruppo di attiviste ha deciso di recuperare lo stabile abbandonato nel tempo ha infatti offerto accoglienza, percorsi di orientamento e di formazione a più di mille donne. E negli anni ben 145 donne hanno vissuto nella casa, spesso con i loro figli.

Attualmente, Lucha, che dispone di quattordici stanze private, ospita tredici donne e sei bambini. Che però rischiano di trovarsi senza più un tetto, visto che secondo la legge lo stabile è “abusivamente occupato” e sotto sgombero. 

Nel tempo, continua Simona il progetto è cambiato molto e si è strutturato. Noi attiviste abbiamo seguito dei corsi professionali per diventare operatrici antiviolenza, qualcuna di noi si è specializzata ed è diventata psicoterapeuta, qualcun'altra avvocata. Insomma, nel frattempo anche noi siamo cresciute e abbiamo costruito un progetto all’avanguardia e competente. Un polo di aggregazione e aiuto alle donne che se venisse chiuso sarebbe una grande perdita per il quartiere e per la città”.

Lo spazio, dopo l’occupazione, non è però mai stato regolarizzato. “In realtà precisa Simona in nove anni  abbiamo provato in qualche modo a regolarizzarlo  tante volte, iniziando a interloquire con le amministrazioni fra il 2009 e il 2010. Senza volere per questo scendere a eccessivi compromessi, mantenendo l’autonomia e l’autogestione necessaria per portare avanti un progetto che si occupa di femminismo e di autodeterminazione delle donne. Ma nonostante tutti abbiano riconosciuto il valore del nostro progetto, nessuno fino a oggi si è impegnato a costruirne gli argini, la cornice che potesse metterlo in salvo”.

Le attiviste della casa lamentano infatti il disinteresse del Comune e della Giunta verso una situazione che da più di un anno cercano di portare all’attenzione delle istituzioni, numeri e dossier alla mano per evidenziare i risultati raggiunti.

Atac, ribadisce Simona ha delle rimesse enormi di centinaia e migliaia di metri quadri. Sono delle vere e proprie piccole cittadine. E ha deciso di mettere tutto in vendita per risanare i conti. Quando siamo venute a sapere la cosa, abbiamo subito scritto alla sindaca e alla giunta per ribadire la presenza di Lucha, nell’unico bene di Atac che attualmente non è vuoto né abbandonato. E che invece è stato riqualificato e che funziona”. E aggiunge: “Da quando ci è arrivata di nuovo la lettera di Atac in cui ci dice che fra pochi mesi dobbiamo uscire, l’amministrazione con noi non si è mai fatta sentire”. 

Eppure, Lucha, per le donne, è un posto unico e sperimentale. In genere, spiega Simona, i centri antiviolenza e le case rifugio hanno tutta una serie di regolamenti che rendono molto complicato il percorso di fuoriuscita e di autonomia delle donne a causa di tempi di permanenza molto stringenti, cioè sei mesi-otto mesi. Insufficienti per una donna che esce da una situazione di violenza. È  per questo che a Lucha non ci sono limiti alla permanenza, ma essa viene valutata caso per caso”. E aggiunge: “Da noi le donne si autogestiscono. Noi siamo qui per i colloqui, per il sostegno, per l’accompagno, ma per quanto riguarda la gestione della casa e della loro vita, ciascuna è indipendente”.

L’altro aspetto che distingue Lucha è lo stretto rapporto con il territorio, densamente popolato. 

“Il settimo municipio, quello dove si trova Lucha ricorda Simona ha un numero di abitanti che equivale alla città di Firenze. E qui non ci sono altri centri oltre noi. Per questo è importante che Lucha resti dove è ora. In questi anni abbiamo infatti costruito tutta una serie di reti di sostegno per i progetti di fuoriuscita delle donne, processi che sono sempre complessi, e che hanno bisogno dei loro tempi. Al centro di queste reti c’è sempre la donna, a cui offriamo la possibilità di accedere a tutti i vari pezzi della formazione per attivare il proprio percorso di autonomia”.

Tutto questo, in un quadro sociale peraltro molto difficile, e con un sistema di accoglienza che a Roma sembra paralizzato. Nonostante la forte domanda. Basti pensare che, dati Istatin Italia nel 2017 quasi cinquantamila donne, hanno chiesto aiuto a un centro anti violenza

In tutta Italia i centri antiviolenza sono solo 253: il 34 per cento si trova nelle regioni del Sud, il 22 per cento nel Nord Ovest, il 20 per cento nel Nord Est, il 16 per cento al Centro e l’8 per cento nelle isole. 

L’Italia, sottolinea Simona è assolutamente fuori regola rispetto agli spazi di accoglienza. Nonostante abbia firmato la convenzione di Istanbul che prevede un centro anti violenza ogni 10mila abitanti. Il che significa che per una città come Roma dovrebbero esserci circa 300 posti, invece ce ne sono solo 20”. E conclude:  “Anche per questo abbiamo lanciato l’idea di costruire una giornata a livello nazionale dedicata agli spazi femministi, il prossimo 21 marzo”.

Photo credit: Sara Cervelli