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Per trasformare la cura c'è bisogno di includere nel dibattito l'esperienza delle donne. La gravidanza, in questa direzione, può essere un punto d'osservazione significativo. Un'intervista a Pamela Pasian, autrice del libro Doulas in Italy: the emergence of a “new” care profession

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Foto: Unsplash/Jason Yuen

Pamela Pasian è assegnista di ricerca e docente a contratto presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, e docente a contratto in sociologia della famiglia all’Università di Padova. Nel 2022 è uscito per Routledge il suo libro Doulas in Italy: the emergence of a “new” care profession, frutto di un lavoro etnografico e autoetnografico durato tre anni. Nel volume, Pasian indaga il processo di costruzione dell’identità professionale delle doule – figure non sanitarie di accompagnamento al parto e alla maternità – analizzandone percorsi formativi, pratiche e rappresentazioni. Nella sua ricerca il classico approccio da sociologia delle professioni si incontra con una più ampia riflessione sul tema della nascita e della maternità, di cui l’autrice descrive attentamente i significati e le contraddizioni nell’Italia di oggi.

Come prima cosa vorrei chiederti di raccontarci chi è una doula, visto che ancora molti non conoscono questa figura.

La doula è una professionista non sanitaria che offre un supporto pratico, emotivo e informativo alla donna e alla famiglia, dalla gravidanza fino al primo anno di vita del bambino. Il modello di care proposto è innovativo, fortemente personalizzato e attento all’empowerment della famiglia. L’approccio di cura non è direttivo ma fondato sul sostegno alla donna qualunque siano le sue scelte. Si tratta ancora oggi di un profilo di nicchia, tuttavia ho la percezione che le doule si siano fatte conoscere maggiormente negli ultimi anni, in alcuni territori più che in altri.

Dunque la doula non è un’esperta in senso classico perché quello che offre è primariamente supporto relazionale. Possiamo dire che è una risposta ai bisogni relazionali nati con l’indebolimento delle reti sociali e familiari?

Sicuramente siamo in un contesto storico-sociale che è molto mutato negli ultimi anni, e con esso i bisogni. Le famiglie di provenienza spesso sono lontane e la rete amicale è composta da coetanei in età lavorativa con poco tempo libero. In altri casi però sono le donne a non volere il supporto della rete familiare, per svariate ragioni. La doula offre un’expertise fondata nelle pratiche di relazione, attingendo primariamente al sapere dell'esperienza, anche quella delle donne stesse, che conoscono perfettamente i loro bisogni e i loro desideri. È in questo creare una relazione di vicinanza che si sviluppa il supporto professionale.

La tua ricerca è proseguita di pari passo con la tua formazione da doula, permettendoti una doppia prospettiva che credo abbia dato grande forza al libro. Hai superato la pretesa di uno sguardo sempre distaccato, lasciando spazio al coinvolgimento personale e facendo delle emozioni un vero e proprio strumento metodologico. Nel libro emergono però anche le difficoltà del fare ricerca da “insider”. Come hai gestito questo ruolo? Che consigli daresti a chi fa ricerca e sta per iniziare un’auto etnografia?   

Sicuramente ho sentito il bisogno di cercare nella letteratura un supporto a quello che stavo vivendo da ricercatrice per capire come situarmi in un campo così complesso. È stato utile per me, e lo consiglierei a chi fa ricerca in una situazione simile, di pensare che la nostra postura deve essere, citando La Mendola, "centrata e aperta". In questo credo che mi abbia aiutata la formazione da doula, perché l’attitudine all’ascolto attivo appresa nel percorso formativo è simile a quella necessaria per chi fa ricerca sociale. Poi sicuramente il diario etnografico è il miglior amico del ricercatore. Ricordo che dopo alcune interviste registravo immediatamente le mie impressioni, magari mentre guidavo, per poi trascriverle. L’altro grande alleato è il tempo, un tempo dilatato che permetta di tornare nei dati dopo averli lasciati decantare. Quando si è nel vortice della ricerca si lavora a ritmi serrati ma per quanto mi riguarda le migliori intuizioni le ho sempre quando, dopo una settimana di lavoro, vado a fare una camminata in montagna.

Nel libro descrivi diversi rituali che le doule mettono in campo per l’accompagnamento alla nascita. Ci vuoi raccontare una di queste pratiche? Quale credi sia la loro importanza nell’esperienza di maternità?

Le doule attingono a diversi sistemi di saperi e li adattano a seconda delle esigenze delle famiglie. Per esempio il blessingway, che è un momento d’incontro tra la futura partoriente e le persone a lei più vicine, è una cerimonia di origine Navajo reinterpretata come rituale di preparazione al parto. Non è un semplice momento di convivialità, come può essere il baby shower, ma un’occasione di cura e direi di coccola per la futura madre. È lei stessa a decidere come concretizzare questa cura, che sia attraverso massaggi, danze, manicure o letture di poesie. In un contesto come quello italiano, in cui le politiche sociali e i servizi per madri e famiglie sono carenti, è un modo per consolidare la rete di persone a cui si chiede supporto per i giorni a venire. Può essere letto anche come rituale di protezione, accompagnato da oggetti significativi donati alla donna che danno materialità al sostegno richiesto. Spesso l’incontro è suggellato da un braccialetto di lana rosso che la madre offre alle partecipanti per rimandare simbolicamente alla loro unione e che sarà tagliato solo a nascita avvenuta.

L’emerge di questa professione è stato scandito da cooperazioni ma anche conflitti. Nel libro indaghi sia quelli intra professionali – tra le diverse associazioni di doule – che quelli inter professionali tra doule e ostetriche, le quali si sono spesso opposte al riconoscimento di questa figura. Oggi c’è ancora questo attrito?

Nel corso della ricerca sono emersi due posizionamenti ben diversi tra le ostetriche: alcune mettono in campo una forte opposizione, accusando le doule di abuso di professione, altre sono aperte alla collaborazione, nel rispetto dei rispettivi ruoli. Ad esempio, nelle interviste, le ostetriche dei consultori hanno spesso sottolineato come la scarsità di risorse non dia loro la possibilità di seguire le donne in modo continuativo nel post-partume la doula era quindi vista come un’utile alleata. Poi, da sempre, le doule hanno valorizzato il lavoro delle ostetriche, ad esempio ricordando alle donne che è appunto l’ostetrica la figura competente per accompagnare una gravidanza fisiologica, mentre come sappiamo in Italia è ancora diffusa l'abitudine a farsi seguire dal o dalla ginecologa. La mia percezione è che in questi anni, grazie a una migliore conoscenza del ruolo delle doule, la collaborazione tra le due figure sia aumentata.

La doula dunque è una figura privata che offre quel sostegno emotivo e quella continuità assistenziale che nel pubblico è difficile trovare. Mi domando se questa figura non rischi paradossalmente di rendere “tollerabili” le carenze della sanità pubblica, colmando però queste mancanze solo per chi è in grado di provvedervi privatamente.

Seguendo Norbert Elias, una figura professionale emerge sulla base di un bisogno insoddisfatto, ma anche a causa dell’incapacità delle istituzioni preesistenti di fornire soluzioni a problemi che hanno contribuito a originare; secondo me è di  questo che si tratta. Il tema, a mio avviso, è che l’esperienza delle donne deve tornare al centro del dibattito e il discorso pubblico sulla maternità non può muovere solo da una prospettiva biomedica, dimenticando la dimensione sociale. Solo se impareremo a osservare questi fenomeni tanto con le lenti biomediche quanto con quelle sociali riusciremo a rivoluzionare l’assistenza alla nascita affinché sia maggiormente rispondente ai bisogni delle donne.

In questo senso credo che la pandemia abbia portato all’estremo dinamiche già presenti. Penso per esempio a quanto è stato ritenuto non essenziale nei reparti maternità: la presenza del partner, le stanze per il travaglio fisiologico, l’accompagnamento di una doula...

Sicuramente il covid ha estremizzato questa situazione, evidenziando come il discorso biomedico sia ancora l'unico discorso legittimo in tema di parto e gravidanza. Lo sforzo deve essere quello di riportare al centro del dibattito, politico e scientifico, la maternità e il parto non solo come esperienze biomediche ma anche come esperienze sociali. Credo ad esempio che le donne dovrebbero essere parte integrante nelle decisioni che vengono prese in tema di parto, gravidanza e post partum,  altrimenti i protocolli e le routine continueranno ad avere la meglio sui loro bisogni. Pensiamo ad esempio al cesareo: in Italia, a differenza di altri paesi, in caso di parto chirurgico il o la partner non può entrare in sala operatoria: quanta violazione dei diritti, quanta violenza c'è in questa scelta?

Cosa possiamo fare per cambiare le cose senza accentuare le disuguaglianze rispetto all'accesso alla cura?

A mio avviso, il nostro lavoro oggi è quello di sollecitare il sistema biomedico a mettersi in discussione, integrando la dimensione psico-sociale e ascoltando i bisogni delle donne. È vero che, come dicevi, il privato non basta a colmare questi bisogni, penso però ad altri contesti in cui la doula è operatrice interna all'ospedale o comunque finanziata da progetti pubblici, come ad esempio nel caso delle community doulas, che lavorano negli Stati Uniti con gruppi socialmente fragili. Anche in Italia ci sono state esperienze di questo tipo che hanno avuto un impatto positivo. D’altronde la letteratura evidenzia ampiamente i benefici del supporto delle doule, sia in termini biomedici che nel vissuto delle donne. Le evidenze non mancano, quello che è necessario è uno sforzo di messa in discussione e decostruzione del sistema della biomedicina, ancora fortemente patriarcale. Per questo quello che mi auguro è prima di tutto che la maternità possa ritornare al centro della riflessione femminista.

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