Politiche

La tendenza al livellamento nell'età di uscita dal lavoro è comune a tutt'Europa. Bisogna evitare di guardare allo "sconto" sull'età per le donne come a un risarcimento del lavoro di cura, confermando così i ruoli dati; e valutare i parametri delle singole posizioni lavorative, che fanno davvero la differenza

Pari alla pensione,
il trend europeo

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Da diverso tempo il dibattito sul ruolo della previdenza rispetto alle pari opportunità tra i due generi, e in particolare sull’opportunità di differenziare o omologare l’età di pensionamento di uomini e donne, appassiona i media e coinvolge, in vari ambiti, ricercatori e ricercatrici. In questa nota si cerca di riordinare i temi sul tappeto e chiarire la questione, nel limite del possibile, alla luce di una prospettiva europea.

E’ generalmente riconosciuto che forti sistemi di protezione sociale sono parte integrante del “modello sociale europeo”. Com’è noto, la politica sociale rientra nella competenza dei singoli stati membri, e più specificamente in tema previdenziale, a questi vengono riferiti tre obiettivi.

1. Adeguatezza: garantire pensioni adeguate per tutti e un sistema che permetta di mantenere, entro un livello ragionevole, il livello di vita standard dopo la pensione, perseguendo gli obiettivi di solidarietà ed equità generazionale;

2. Sostenibilità: favorire il prolungamento della vita lavorativa e l’invecchiamento attivo, garantendo un giusto ed adeguato equilibrio fra contributi e prestazioni nonché promuovendo l’accessibilità e garantendo la sicurezza dei regimi a capitalizzazione;

3. Modernizzazione: fare in modo che i sistemi pensionistici siano trasparenti, ben adatti alle esigenze e alle aspirazioni degli uomini e delle donne e alle necessità della società moderna, all’invecchiamento demografico e ai cambiamenti strutturali; che le persone ricevano le informazioni necessarie per programmare il pensionamento; che le riforme siano realizzate in base al più ampio consenso possibile.

Le misure adottate dal governo italiano di innalzamento dell’età pensionabile delle lavoratrici pubbliche da 61 a 65 anni sono in linea con i provvedimenti adottati nel resto dell’Unione europea negli ultimi anni (si veda il quadro riassuntivo della situazione europea pubblicato in questo stesso sito nel Glossario).

Dal punto di vista della sostenibilità questo provvedimento ha un impatto modesto: il risparmio complessivo derivante dall'anticipo al 2012 dell'innalzamento dell'età per andare in pensione è stato valutato dal governo in 1,450 miliardi tra il 2012 e il 2019.

Più rilevanti sono i riflessi in termini di adeguatezza e modernità del sistema previdenziale.

Come si vede nella Figura 1, le età medie di effettiva uscita dalla forza lavoro per uomini e donne sono molto vicine, nonostante le regole di favore, per le donne, in termini di requisiti per la pensione di vecchiaia, ed anzi le donne presentano un trend chiaramente crescente.

Figura 1. Età media di uscita dalla forza lavoro, vari anni

 

Fonte: Eurostat, “Labour Market”, dati disponibili online alla URL seguente:

http://epp.eurostat.ec.europa.eu/portal/page/portal/statistics/themes

 

Dunque, la questione fondamentale, e al momento poco discussa e studiata, è l’impatto del trattamento di favore nei confronti delle donne sui ruoli di genere e sulle aspettative individuali.

Giustificando l’applicazione di regole meno stringenti per le donne come compensazione per le interruzioni contributive e gli altri disagi dovuti al lavoro non retribuito (tipicamente lavoro di cura), i ruoli di genere vengono formalmente riconosciuti e legittimati. Da questo punto di vista, è possibile distinguere le riforme degli anni ’90 (1992 Amato, 1995 Dini, 1997 Prodi) per il loro carattere comune, tendente all'uniformità di trattamento, dalla riforma Maroni del 2004, che reintroduce esplicitamente una distinzione tra uomini e donne, sebbene con riferimento ad alcune limitate categorie di lavoratori.

In un recente lavoro [1] è stato stimato l’effetto delle prime tre riforme sulle aspettative dei lavoratori. Come mostra la Figura 2, a seguito dei provvedimenti introdotti la situazione di forte discrepanza nell'età media di pensionamento attesa (sia per i lavoratori dipendenti che autonomi) viene completamente annullata, con una sostanziale equivalenza delle aspettative a partire dal 2000. Pare dunque che sia stato internalizzato, nella platea dei loro destinatari, lo spirito di uguaglianza di trattamento che caratterizzava tali riforme.

Figura 2. Età di pensionamento mediamente attesa, prima e dopo le riforme degli anni ’90

Fonte: Elaborazioni su dati Banca d’Italia, Indagine sui bilanci delle famiglie italiane, (anni 1990, 1992, 2001, 2003).

 

In altre parole, la tendenza all'aumento dell'età pensionabile delle donne era già nei fatti ancor prima dei recenti provvedimenti presi dal governo italiano.

D’altra parte, l’analisi delle differenze di genere non può essere limitata al requisito formale del dettato normativo in termini di età lavorativa. Piuttosto, come si è più volte sottolineato su queste pagine, maggiore attenzione va prestata ai parametri che descrivono le posizioni lavorative e contributive di uomini e donne, i quali condizionano pesantemente l’esito finale in termini di prestazioni erogate, importo di pensione, risorse allocate e grado di copertura del sistema. Fra questi, assumono un particolare rilievo i parametri demografici, la posizione nel mercato del lavoro sotto il duplice profilo della partecipazione e dei percorsi di carriera e, infine, la copertura del sistema pensionistico in termini di accesso alla prestazione e di adeguatezza degli importi.[2]

 

[1] Corsi, M. e D'Ippoliti, C. “Poor Old Grandmas? A Note on the Gender Dimension of Pension Reforms”, Brussels Economic Review, in corso di stampa.

[2] Per ulteriori approfondimenti, si veda Horstmann, S. e Hüllsman, J., The Socio-Economic Impact of Pension Systems on Women, 2009, disponibile on-line all’indirizzo:

http://ec.europa.eu/social/BlobServlet?docId=5001&langId=en&ei=49mdTNmjJoXHswaq3N3mDg&usg=AFQjCNEMTLlejwjmKki_rvB59Tf512KXSg.