Dati

Le donne hanno superato gli uomini nell'istruzione, e contribuiscono sempre più ai bilanci familiari. Eppure rimane un notevole divario nei redditi (in Italia del 43,5%). Determinato non solo dal cosiddetto "gender pay gap", ma anche da scarsa occupazione femminile e segregazione nel part-time. Il punto della situazione in fatto di uguaglianza di genere, a 20 anni dalla piattaforma di Pechino

Pari e indipendenti,
una rivoluzione in stallo?

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Foto da Flickr/Gojame

Sono passati vent’anni dalla conferenza mondiale sulle donne di Pechino (1). In questi due decenni in Europa i progressi sono stati forti e innegabili. L’Europa condivide con altre parti del mondo alcuni successi e sfide in tema di uguaglianza di genere, ma ne ha fatto un esplicito obiettivo di politica comunitaria, a differenza di altri paesi.

I progressi

Se l’eguaglianza fra uomini e donne sul lavoro inizia dalle scuole e dalle università, il bilancio degli ultimi vent’anni per l’Europa si deve aprire con il sorpasso di genere nell’istruzione, un fenomeno peraltro comune a molti altri paesi. Nell’Europa con ventotto paesi membri, la quota di laureate fra le giovani (30-34 anni) supera oramai quella maschile di 8,4 punti percentuali; e nessun paese europeo fa eccezione a questa regolarità.

Sul mercato del lavoro l’occupazione femminile ha contribuito all’80% della crescita netta dell’occupazione totale nell’Europa a ventisette membri a partire dal 2000 (2). E se si guarda alle famiglie in cui il lavoro della donna è più a rischio – quelle con figli minori - si deve prendere atto dell’importanza che ha assunto il contributo economico delle madri che lavorano. Nell’Europa a quindici, i nuclei dove le madri contribuiscono al reddito da lavoro complessivo per più della metà, o comunque per una quota significativa (tra un quarto e la metà) rappresentano una solida maggioranza cresciuta di circa dieci punti negli ultimi vent’anni.

Rivoluzione in stallo?

Ma in un’Europa ancora nelle morse della crisi economica occorre interrogarsi sul rischio che si tratti di una rivoluzione in stallo. I sintomi sono molteplici. Le prospettive occupazionali innanzitutto. La fase molto espansiva dell’occupazione femminile negli anni pre-crisi giustificava almeno in parte l’aspettativa ottimistica che uomini e donne europei potessero raggiungere o superare il target del 75% nel tasso di occupazione alle soglie del 2020: l’attesa parità di presenza sul mercato del lavoro. Negli anni della crisi l’occupazione femminile ha retto molto meglio di quella maschile, ma non poteva galoppare per raggiungere un obbiettivo così ambizioso. Al tasso medio di crescita registrato fra il 2002 e il 2013 bisognerebbe aspettare ancora venticinque anni (il 2039) per coronare il raggiungimento di questo obiettivo.

Lo stallo riguarda anche i redditi. Nell’Europa a ventisette il differenziale salariale fra uomini e donna per ora lavorata (gender pay gap) è relativamente basso (attorno al 16,5%) ma è calato solo di qualche punto dai primi anni novanta. Il differenziale salariale è assurto a simbolo delle disparità di genere da colmare perché si presume che almeno una parte sia imputabile alla discriminazione. Se però si guarda all’indipendenza economica invece che alla discriminazione gli indicatori importanti sono quelli che ci dicono quanto portano a casa complessivamente le donne rispetto agli uomini. Ebbene, qui le cifre attuali non sono incoraggianti, nonostante i miglioramenti avvenuti. Nell’Europa a ventisette una donna in età lavorativa mediamente porta a casa a fine mese il 37,1% in meno di un uomo per tre ragioni: perché molti più uomini che donne lavorano e perché per quelli che lavorano la paga oraria è più alta e più numerose le ore di lavoro. L’Italia è un caso eclatante di differenziale salariale molto contenuto a fronte di un forte differenziale complessivo di guadagno (43,5%). L’Italia spartisce una non gloriosa classifica con paesi quali Inghilterra, Germania e Olanda dove il forte ricorso al part-time penalizza i guadagni complessivi delle donne (si veda l'infografica in fondo).

Data l’eredità lasciata dal mercato del lavoro, il passaggio alla pensione non sempre significa un livellamento delle disparità di reddito fra uomo e donna anche se questo è vero per alcuni paesi membri dell’Unione. In media europea, però, il reddito da pensione di un ultrasessantacinquenne maschio che beneficia di almeno un trattamento supera quello femminile del 40,2% (stime provvisorie). Ciò che più preoccupa in una società dove gli anziani crescono è che questa differenza non ha mostrato segni di diminuzione nell’ultimo decennio. Il disagio che questi dati creano non può che aggiungersi alla preoccupazione diffusa per una generazione di giovani adulti che sta maturando contributi scarni perché sono più precari, più disoccupati e meno pagati.

Al rischio di stallo nel perseguimento di una piena uguaglianza sul lavoro fra uomini e donne contribuiscono o rischiano di contribuire fattori di lungo corso, come il persistere degli stereotipi di genere sul lavoro e in famiglia, cause contingenti come le politiche di austerità e processi evolutivi del mercato della lavoro che lo spingono verso una sempre maggiore ‘fluidità’.

Crisi e austerità. Uno dei danni collaterali, e probabilmente evitabili, delle politiche di austerità è di aver trasformato l’eguaglianza di genere in un lusso che solo i paesi non colpiti gravemente dalla crisi si possono permettere. L’austerità ha peggiorato le prospettive in tema di uguaglianza di genere proprio in quei paesi che di politiche dell’eguaglianza hanno più bisogno. Un dato emblematico a questo proposito sono le proiezioni occupazionali per i cosiddetti paesi cosiddetti GIPSI ( Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Italia), versione caritatevole dell’odioso PIIGS. In questo gruppo di paesi si dovrebbe attendere il 2068 perché venisse raggiunto l’obiettivo del 75% del tasso di occupazione femminile (ad un ritmo di crescita pari a quello registrato fra il 2002 e il 2013). In questi paesi non solo si parte da tassi di lavoro femminile inferiori, ma crisi e austerità hanno rallentato o invertito la crescita più che altrove.

Il ruolo ambiguo degli stereotipi. La naturale evoluzione delle economie avanzate verso una struttura basata sui servizi non è di per sé sfavorevole all’occupazione delle donne. Al contrario. L’economia della cura – dei bambini, dei diversamente abili ma soprattutto cura medica e degli anziani – è destinata a diventare uno dei settori trainanti dell’occupazione nel futuro. I rischi in questo caso albergano dal lato delle condizioni occupazionali – bassi salari e bassa produttività – soprattutto in confronto ad altri due possibili fonti di espansione dell’impiego, l’economia dell’innovazione e l’economia verde. Un ostacolo importante in proposito sono gli stereotipi lavorativi, che continuano a guidare anche le scelte formative di ragazzi e ragazze. Le 20 professioni più importanti – contano per il 94% del totale dell’occupazione a livello europeo – annoverano solo una stretta minoranza di professioni che si possono definire ‘miste’, mentre la stragrande maggioranza è ancora prevalentemente maschile o prevalentemente femminile. Il settore della cura, in particolare, è dominato dalle donne, alcune a salario alto (i medici), molte a salario e professionalità bassi. Il settore verde e il settore dell’innovazione invece sono a dominanza maschile, con salari e professionalità mediamente alti.

La crescente fluidità del mercato del lavoro. L’azione congiunta della tecnologia e della de-regolamentazione spingono il mercato del lavoro verso uno stato sempre più fluido, con mobilità crescente fra un lavoro e l’altro, fra lavoro e disoccupazione e con una contiguità crescente fra ‘casa e bottega’ come succedeva all’agricoltura di un tempo. Questo fa sì che l’impianto dello stato di benessere tradizionale sia una coperta inadeguata per le nuove generazioni con conseguenze potenzialmente negative sull’uguaglianza di genere. Per limitarmi a qualche esempio, le giovani assunte con contratti a tempo determinato di fatto non godono ancora degli stessi benefici rispetto ai congedi parentali e di maternità contemplati per un contratto a tempo indeterminato. O ancora, in molti paesi le giovani sono più a rischio di disoccupazione ma non dovunque i periodi di disoccupazione sono contati fra i contributi in conto pensione.

È importante perciò ripensare a chi sono i beneficiari dello stato sociale così come lo conosciamo ora nei diversi paesi. In particolare chi ha accesso a quale beneficio fra i giovani uomini e le giovani donne che si trovano di fronte ad un mercato del lavoro ‘fluido’? Come riformulare lo stato sociale a immagine delle future generazioni?

Quale visione per il futuro?

Ripensare lo stato sociale è un esempio di come le donne possano essere parte della soluzione, anzi parte decisiva di una nuova visione di crescita dell’economia e del mercato del lavoro che veda nell’eguaglianza di genere un fattore propulsivo, non un costo.

Per l’Europa questa diversità di visione passa anche dal riconoscere il peso della ‘questione regionale’, di come cioè austerità e crisi stiano ampliando i divari nella capacità effettiva (e nel coraggio) dei diversi paesi membri di scommettere oggi su tutte quelle politiche che assecondano l’uguaglianza di genere in economia.

Per molti stati membri una nuova visione può significare una diversa concezione della politica fiscale o di quella industriale. Ad esempio, si parla sempre più insistentemente di incentivate investimenti in infrastrutture per uscire dalla crisi e si inizia addirittura a parlare di ‘politica industriale’ in alcuni paesi, l’Italia in particolare. Forse bisognerebbe parlare di una ‘politica industriale della cura’, quasi un ossimoro che vede in un settore come la cura degli anziani la possibilità di coniugare alta tecnologia (domotica, ricerca medica specializzata, robotica etc.) con l’assistenza domiciliare e quella medica a livelli di qualificazione diversi. Questa combinazione può risollevare salari e produttività nel settore e magari incoraggiare gli uomini ad entrarvi, sfidando gli stereotipi correnti.

La piattaforma di Pechino è stata influente. Riusciremo a rinnovarla, calandola nella realtà europea, come si richiede per completare la sfida? Le premesse ci sono, ma dipenderà anche dalla nostra capacità di trasmetterle alle nuove generazioni. 

NOTE

(1) Questo articolo è un adattamento della relazione tenuta dall’autrice come coordinatrice dell’European Network of Experts on Gender Equality (Enege), l’organo di esperte su eguaglianza di genere e mercato del lavoro che assiste la Commissione Europea (Divisione Giustizia, Unità per l’Eguaglianza di Genere). Si tratta della relazione di apertura del convegno "Gender equality in Europe: unfinished business? Taking stock 20 years after the Beijing Platform for Action", in programma il 23 e il 24 ottobre 2014 presso la sala delle conferenze internazionali del ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, a Roma. Qui il programma.

(2) Attualmente l’Unione europea è composta da 28 paesi; per Europa a 27 membri si intende l’assetto fino al 2013, anno in cui è entrata a far parte la Croazia. Per Eu-15 si intende invece il gruppo originario di paesi dell’unione europea.