Politiche

Entra in vigore la legge 162 che introduce modifiche in materia di pari opportunità in ambito lavorativo, rispondendo a valori sanciti e perseguiti a livello europeo. Due economiste del lavoro la commentano punto per punto

Parità retributiva
un passo avanti

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Foto: Unsplash/ Artem Beliaikin

Il diritto alla parità retributiva tra donne e uomini per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore è uno dei principi fondamentali sanciti dal trattato di Roma del 1957. Sebbene la necessità di garantire la parità retributiva sia espressa nella Direttiva 2006/54/CE, integrata nel 2014 da una raccomandazione della Commissione sulla trasparenza retributiva, l’effettiva attuazione di tale principio continua a rappresentare una sfida nell’UE. Individuando nella mancanza di trasparenza retributiva uno dei principali ostacoli alla parità retributiva tra donne e uomini, la Presidente Von Der Leyen ha annunciato (lo scorso marzo) che la Commissione presenterà la proposta di una direttiva sulla trasparenza salariale che si propone di combattere la discriminazione attraverso due strumenti: la trasparenza retributiva, la maggiore facilità di accesso alla giustizia per le vittime di discriminazione retributiva (CNEL 2021).

Il 18 novembre scorso è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale la legge 162 che introduce modifiche in materia di pari opportunità tra uomo e donna in ambito lavorativo, rispondendo a valori sanciti e perseguiti a livello europeo. Sono due le finalità principali: migliorare la trasparenza retributiva e incentivare le imprese al perseguimento della parità di genere attraverso l’istituzione di una certificazione che apre la via ad alcune forme di premialità.

La prima parte della legge 162 modifica l’articolo 46 del codice delle pari opportunità tra uomo e donna (D. Lgs. 198/2006), che prevedeva l’obbligo per le aziende con più di 100 dipendenti di presentare ogni due anni un rapporto sulla situazione del personale. La nuova legge intende ovviare ad alcune delle criticità che si erano presentate nell’applicazione della precedente normativa, segnalate dalle consigliere di parità, in particolare: soglia per numero di dipendenti eccessivamente elevata, dati non pubblici, sanzioni blande (Simonazzi 2020).

La soglia dimensionale delle aziende tenute alla rendicontazione è stata abbassata da 100 a 50 dipendenti, così da riflettere meglio la struttura produttiva dell’economia italiana, composta da una prevalenza di unità di piccole e medie dimensioni. Le indicazioni per la redazione del rapporto vengono definite dal Ministro del lavoro di concerto con il Ministro delle pari opportunità. A questo proposito, andrebbe considerata l’opportunità di semplificazione del questionario a cui le imprese devono rispondere, procedendo a una integrazione dei dati disponibili, per evitare di richiedere informazioni che sono già a disposizione delle amministrazioni pubbliche (Inps, Inail). La collaborazione fra istituzioni e imprese, specie se piccole, potrebbe aumentare notevolmente l’accettazione della normativa. La legge prevede infine la pubblicazione in un’apposita sezione del sito internet del Ministero del lavoro e delle politiche sociali dell’elenco delle aziende che hanno trasmesso il rapporto e delle aziende che non lo hanno trasmesso (esponendo le imprese che non ottemperano a una sorta di pubblicità negativa: naming and shaming), prevedendo anche sanzioni in caso di mancata o mendace dichiarazione. È stato individuato nella figura del Consigliere nazionale di parità il soggetto istituzionale responsabile per l’analisi e la trasmissione delle valutazioni al parlamento ogni due anni.

All’obbligo della relazione sulla parità retributiva per le imprese con oltre 50 dipendenti, aperta tuttavia su base volontaria anche alle imprese con un numero inferiore di dipendenti, si accompagna l’istituzione di una certificazione della parità di genere, i cui requisiti sono demandati a futuri decreti. Le imprese che ottengono il certificato possono godere di uno sgravio contributivo. La certificazione può aprire anche la strada al riconoscimento di un punteggio premiale (Sabbadini 2021) o costituire condizione per la partecipazione nel caso di gare d’appalto pubbliche, come previsto nel PNRR. È infine istituito, presso il Dipartimento delle Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio, un Comitato tecnico permanente sulla certificazione di genere nelle imprese, costituito dai rappresentanti dei ministeri interessati, dai rappresentanti sindacali, dalle consigliere e consiglieri di parità e da esperti, senza oneri aggiuntivi per il bilancio. 

Che valutazioni possono trarsi su questa legge? La trasparenza retributiva, e di tutti i meccanismi sottostanti (es.: criteri di selezione nelle assunzioni, nella formazione e nelle progressioni di carriera) può certamente aiutare ad individuare e perseguire situazioni di discriminazione. Tuttavia, la disponibilità di dati dovrà essere accompagnata anche da un’assistenza tecnica al/lla consigliere/a di parità per la loro elaborazione e interpretazione. Il/la consigliere/a potrà più agevolmente individuare l’esistenza di eventuali discriminazioni (collettiva o individuale), e promuovere le iniziative opportune, secondo quanto previsto dalla legge. Importante a questo proposito è rafforzare le competenze dell’istituto del/lla consigliere/a, assicurare le risorse finanziarie necessarie, e predisporre una adeguata assistenza tecnica. Nei casi di palese discriminazione ‘indiretta’ da parte delle imprese (es.: se i criteri di valutazione per le promozioni avvantaggiano gli uomini rispetto alle donne) è dubbio che ci si possa affidare unicamente alle competenze del/la consigliere/a o alla rilevanza della pubblicità negativa (più rilevante forse per le grandi imprese). In questi casi potrebbe essere risolutivo progettare delle azioni positive che si traducono in modifiche dell’organizzazione del lavoro, con vantaggi sia per l’impresa sia per le dipendenti oggetto di discriminazione. Nuovamente, ciò richiede competenze specifiche, che non si possono improvvisare. Altre azioni sono possibili. In Svezia, per esempio, le imprese con più di 25 dipendenti sono tenute a pubblicare un piano di azione volto a eliminare le disuguaglianze. In Francia, invece, le grandi imprese sono passibili di sanzioni fino all’1% del monte salari.

La trasparenza retributiva può anche costituire un incentivo per una revisione più generale delle politiche in materia di parità di genere a livello di impresa e promuovere una più stretta collaborazione tra datori di lavoro e rappresentanti dei lavoratori. In questo senso, l’istituzione di una certificazione della parità di genere, che includa una serie più ampia di indicatori, può rappresentare un utile complemento. È importante ricordare, infatti, che sempre di più la determinazione della retribuzione è determinata da caratteristiche lavorative personali (es. capacità di lavorare in gruppo, disponibilità ad adeguarsi a modifiche organizzative), che variano da lavoratore a lavoratore e non dipendono strettamente dal tipo di lavoro svolto. 

Un altro problema da considerare riguarda la scarsa consapevolezza da parte delle donne occupate (come dipendenti) di essere oggetto di discriminazione (soprattutto se indiretta), e del loro diritto ad un trattamento non discriminatorio nel lavoro. Il problema è certamente maggiore per le donne occupate in imprese al di sotto dei 50 dipendenti (senza obbligo di redigere il rapporto). Sarebbe molto importante accompagnare l’implementazione della nuova legge (L. 162/2021 e decreti attuativi) con una adeguata campagna informativa sulla discriminazione nel lavoro (diretta e indiretta), e sull’esistenza e il ruolo del/la Consigliere/a di parità e dei patronati sindacali.

Non va trascurato, tuttavia, che il monitoraggio di comportamenti discriminatori potrebbe indurre effetti indesiderati, per esempio incoraggiare l’outsourcing di lavori a basso salario occupati da lavoratrici o ridurre l’assunzione di lavoratrici dipendenti (utilizzando altre soluzioni contrattuali) per evitare di doverle includere nel rapporto. Rimangono poi i problemi sollevati dai mutamenti nell’organizzazione del lavoro (per esempio le imprese di servizi che operano in franchising o le nuove imprese della gig-economy) e quelli connessi alla non inclusione di altri lavoratori (sono ovviamente esclusi i dipendenti delle piccole imprese, i lavori irregolari e gli atipici), dove più si annida la discriminazione.

Con queste avvertenze, la compilazione e la pubblicazione del rapporto sulla situazione del personale, oltre a far emergere palesi situazioni di discriminazione, nonché sensibilizzare e consolidare una cultura della parità, può indurre le imprese a riconsiderare le loro politiche retributive. Tuttavia, va ricordato che la parità di genere nel lavoro non può essere ottenuta da una singola misura rivolta alle imprese (con oltre 50 dipendenti), ma richiede una combinazione di azioni (misure legislative e non) in grado di incidere sulle possibili discriminazioni basate sul sesso che si manifestano attraverso l’operare del mercato del lavoro. Queste dipendono da fattori difficilmente aggredibili a livello di singola impresa e richiedono quindi interventi di sistema.

Riferimenti

CNEL (2021). Parere in merito all’atto UE COM (2021) 93 “Proposta di Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio volta a rafforzare l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore attraverso la trasparenza delle retribuzioni e meccanismi esecutivi”, approvato dall’Assemblea del CNEL nella seduta del 30 giugno 2021, relatrice la consigliera Annalisa Rosselli.

Sabbadini, A. (2021). Il gender procurement può migliorare il lavoro

Simonazzi, A. (2020). Audizione del 18-2-2020, Commissione XI Camera dei Deputati (Lavoro pubblico e privato) nell’ambito dell’esame delle abbinate proposte di legge C. 522 Ciprini, C. 615 Gribaudo, C. 1320 Boldrini, C. 1345 Benedetti, C. 1675 Gelmini, C. 1732 Vizzini, C. 1925 CNEL e C. 2338 Carfagna, recanti “Modifiche all’articolo 46 del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, in materia di rapporto sulla situazione del personale”.

Articolo pubblicato in contemporanea su Labour Law Community