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Virologa, specializzata nella diffusione delle malattie che si trasmettono agli umani dagli altri animali, Ilaria Capua ha affrontato la comunità scientifica internazionale per difendere l'accesso libero ai risultati delle sue ricerche

Pioniere. Ilaria Capua,
il coraggio dell’open source

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Foto: Flickr/NIAID

Ilaria Capua nasce a Roma nel 1966 e fin dalla più tenera età, comincia a mostrare interesse per tutto ciò che ha a che fare con gli esperimenti scientifici. Capua frequenta le scuole internazionali fino alla maturità e parte subito con una marcia in più: l’inglese fluente da madrelingua le sarà di grande aiuto nel suo percorso di carriera e nella sua attività nella comunità scientifica internazionale.

Anche se la famiglia l’avrebbe voluta indirizzata a una brillante carriera da avvocato, al momento della scelta della facoltà Ilaria strappa il consenso per iscriversi a medicina veterinaria. Lo fa simulando un amore per gli altri animali ma il motivo è un altro, ben più intimo. Ilaria vuole andarsene da casa e, per poterlo fare, vuole iscriversi all’unica facoltà non presente nella capitale. E Veterinaria fu, all’ateneo di Perugia. Sono anni di grande studio ma anche di grande divertimento e complicità con i compagni di corso ai quali si rivela anche come provetta cuoca.

Nel 1989 Ilaria si laurea cum laude e comincia subito a lavorare negli istituti zooprofilatici, dove compirà tutto il suo percorso. Da Perugia a Teramo fino a Legnaro, in provincia di Padova. Scenari minori, spesso ignoti, della provincia italiana per una giovane brillante destinata a lasciare il segno nella comunità scientifica della sanità pubblica internazionale.

Il suo focus è sulla virologia e sulle zoonosi, le malattie che si trasmettono dagli animali agli umani. Nell’immaginario collettivo ci sono la rabbia e la malaria (a cui la morte di Fausto Coppi ha dato una grande visibilità e notorietà); più in là nel tempo la toxoplasmosi, quando prende piede la diagnostica prenatale. Ma questo universo di agenti patogeni va ben al di là delle nostre comuni conoscenze, con potenziali gravissime conseguenze per il genere umano. Come Ilaria ed i suoi gruppi di lavoro riescono a dimostrare.

Foto: Flickr/eLENA tUBAROCapua arriva all’Istituto zooprofilattico del Veneto, a Legnaro, nel 1998, proprio quando la pianura padana sta diventando scenario di casi di influenza aviaria che rappresentano un vero flagello per gli animali coinvolti, per gli allevamenti e per gli allevatori. 

“Dal 17 dicembre 1999 al 5 aprile 2000 sono stati individuati 413 allevamenti infetti da virus HPAI, localizzati pressoché esclusivamente nella pianura padana. Un totale di 13.731.253 volatili sono stati abbattuti o sono morti negli allevamenti infetti e più di 2 milioni di animali, appartenenti ad 80 aziende avicole a rischio di infezione, sono stati abbattuti preventivamente. I costi dell’epidemia sono stati stimati in circa 500 milioni di euro” riporta un documento dell’epoca redatto per l’Istituto superiore di sanità da un gruppo di professionisti coinvolti e di cui Ilaria è coautrice. 

Bisogna pure escogitare qualcosa per la salute dei volatili e degli umani ma anche per salvaguardare il settore avicolo, cruciale per l’economia dell’area e a livello nazionale. Vaccinazione, questa è parola chiave. Il chiodo fisso della virologa Ilaria Capua che infatti nel 2000, dopo la prima esplosione della letale influenza, sviluppa la strategia “diva (differentiating vaccinated from infected animals), la prima che consente di eradicare con successo l'epidemia, e oggi raccomandata come metodica di controllo a livello internazionale.

Una bella affermazione per la giovane ricercatrice, per il suo staff – che negli anni si moltiplica visti i fondi che le attività promosse e condotte da Ilaria Capua sono in grado di attrarre -  per l’Istituto zoprofilattico veneto e per tutto il paese. 

Ma l’aviaria non si arresta. I virus non aspettano, come recita il titolo di un libro di Ilaria uscito anni dopo. E non si arresta nemmeno l’infaticabile attività di Ilaria, diventata mamma nel frattempo, che nel suo laboratorio riesce a mappare la sequenza della versione africana del virus dell’aviaria. Se questo virus H5N1 fosse dilagato in Africa, un continente già provato da HIV, condizioni igieniche precarie, malnutrizione, la pandemia sarebbe stata cosa certa, con il rischio che sopprimesse metà delle persone colpite. 

Ilaria lo isola, lo mappa, sa che contromisure suggerire sul piano sanitario. 

E va oltre. Il verbo che le piace di più, e le è più congeniale, è osare; il sostantivo, coraggio. Li fonde e decide di sfidare l’ordine costituito della sanità pubblica mondiale. A chi le chiede di depositare la mappa del virus in un database ad accesso riservato (in cambio avrebbe avuto accesso lei ad altre banche dati esclusive). Ilaria dice no. No? Sì, proprio un no stentoreo, che non ammette repliche: la sequenza del virus la deposita in un database, Genbank, ad accesso generalizzato. È una operatrice della sanità pubblica; i risultati di una attività finanziata con denaro pubblico non devono finire a conoscenza e a vantaggio solo di pochi.

Diventa così protagonista a livello internazionale: questa decisione è una pietra miliare dell’open source e del knowledge sharing. Sarebbero inimmaginabili i passi avanti realizzati negli ultimi decenni nelle discipline scientifiche e tecnologiche senza un accesso libero alle fonti di primaria informazione e condivisione della conoscenza, a cui il proliferare della tecnologia e dei media che la sfruttano ha fornito un incremento esponenziale. 

Questo improvviso successo non è facile per Ilaria Capua. L’establishment della ricerca si pone molti interrogativi di fronte a questa impennata d’orgoglio della giovane scienziata che opera in provincia di Padova. Il guanto della sfida a consolidate politiche di sanità pubblica viene lanciato da una giovane donna, e mamma, occupata nella sanità pubblica, in un tutto sommato piccolo laboratorio nella provincia di un paese che, sì, alla scienza ha dato anche qualche nome importante, uno su tutti Rita Levi Montalcini, ma che nella politica per la ricerca proprio non ha brillato.

Il gesto di Ilaria è dirompente, forse nemmeno lei sa quanto. Ma all’Organizzazione mondiale della sanità la determinazione con cui sostiene l’accesso lbero ai risultati della ricerca si insinua come un tarlo. Da quell’atto di coraggio, è il 2006, passano cinque anni prima che la condivisione delle informazioni modifichi la politica delle organizzazioni mondiali per la sanità in materia di trasparenza dei dati, con il risultato di ottimizzare le strategie per affrontare minacce globali come le pandemie. La rivoluzione scaturita dalla ribellione di Ilaria non è cosa da poco. I risultati sono sotto gli occhi di tutti con la più recente epidemia di ebola, dove proprio la tempestiva condivisione delle informazioni ha permesso un contenimento degli effetti negativi.

Nel frattempo il mondo della scienza “generosa”, realmente orientata al futuro, premia il coraggio di Ilaria, il suo coraggio di rompere gli schemi. Nel 2007 riceve il premio Scientific American 50 e nel 2008 viene inclusa fra le “menti rivoluzionarie” dalla rivista americana Seed per il suo ruolo di leader nella politica della scienza ("non ho fatto altro che usare il buon senso", commenta lei). Nel 2011 è la prima donna a vincere il Penn vet world leadership award, l’equivalente del Nobel per la medicina veterinaria. Nel 2014 riceve il Premio di eccellenza dalla Società europea per la microbiologia clinica e le malattie infettive. 

Anche la politica guarda a Ilaria. Mario Monti nel 2013, per “salire in politica”, vuole un raggruppamento di eccellenze per contribuire a cambiare il paese. Per la ricerca sceglie Ilaria che viene eletta alla camera. Come dice lei stessa, si batte “come una leonessa” per la sua grande vocazione: per la sperimentazione animale e una sua corretta comprensione e applicazione che non penalizzi i nostri pur bravi ricercatori in ambito europeo; per istituire la figura del ricercatore indipendente (la sua proposta di legge non trova spazi – temporali o politici? – per la calendarizzazione); per sensibilizzare parlamento e paese sui rischi, immensi, dell’antibioticoresistenza. 

E arriviamo al 16 giugno 2016. Ilaria, che ha presentato le dimissioni da Montecitorio, parte, anzi vola, negli Stati Uniti, in Florida, a dirigere un centro di eccellenza One health presso la University of Florida, a Gainesville. Giusto in tempo per affrontare l’emergenza Zika, ben più infida di quanto potesse sembrare fino a quel momento. 

I tempi della ricerca e di un auspicato vaccino non sono immediati, questa ragazza - magica - di 50 anni lo sa bene. Ma qualcosa si può fare, a livello planetario. Seguire il percorso della procreazione responsabile visto che Zika fa danni, e che danni, solo alle donne in gravidanza. Ma chi può lanciare un messaggio inequivocabile, carismatico e globale? Ilaria non ha dubbi: Papa Francesco, “in uno dei suo tweet visionari”.  E glielo chiede dalle colonne del Corriere della Sera. Il motto “Be brave. Do what is right” sembra coniato apposta per lei.

Per completezza e trasparenza, aggiungiamo che Ilaria Capua è stata accusata, e poi del tutto scagionata il 5 luglio 2016, di traffico di virus. Una vicenda che per garantismo preferiamo non commentare. Resta il fatto che l’Italia, non la scienza, ha perso una pioniera.

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