Politiche

Una sperimentazione ha riservato alle lavoratrici la possibilità di andare in pensione prima, ma accettando un assegno più basso. Le adesioni sono state moltissime: come mai? E ora che sta per finire le proteste sono numerose

Pochi maledetti e subito.
La corsa delle donne alla pensione

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nonna

Erano 56 nel 2009, sono arrivate a 8.957 nel 2013, e per il 2014 saranno anche di più, visto che fino al primo ottobre sono state 8.545. Sono le richieste accolte dall’Inps per accedere alla cosiddetta “opzione donna”, la possibilità riservata alle lavoratrici di andare in pensione prima, ma accettando un assegno più basso (1). Un’opzione al ribasso, dunque, che però è piaciuta molto e la cui fine, prevista per il 2015, è causa di malcontento. Tanto più che due circolari dell’Inps (2) hanno dato un’interpretazione restrittiva della scadenza, limitando l’opzione a chi riesce a ottenere il beneficio entro il 2015 e escludendo dunque quelle che ne avrebbero maturato i requisiti l’anno prossimo. Limitazione a cui si oppone il “Comitato opzione donna”, che definisce immotivata e ingiusta la chiusura anticipata della finestra di uscita.

Ma come mai tanta popolarità se in realtà si accetta di uscire dal mondo del lavoro con una decurtazione stimata tra il 25 e il 30% dell’importo della pensione? E di fronte alla notevole disparità che le pensioni femminili già registrano rispetto a quelle maschili? Secondo l’ultima analisi Istat sulle differenze di genere nei trattamenti pensionistici, il reddito medio da pensione degli uomini nel 2012 (se si considerano tutti i trattamenti indipendentemente dall’età) era pari a 19.394 euro l’anno contro i 13.568 delle donne. Fatto 100 l’ammontare per gli uomini, le donne percepiscono il 30% in meno.

La differenza tra pensioni maschili e femminili supera dunque di molto la già elevata differenza nel reddito da lavoro: secondo la Banca d’Italia il reddito medio lordo da lavoro su base annua di una donna è inferiore a quello di un uomo di circa il 22%.

Occorre riflettere sulle ragioni che spingono le lavoratrici ad accettare l’"opzione donna". Innanzi tutto valgono le ragioni che hanno motivato un’opposizione diffusa, anche o soprattutto nell’universo femminile, all’allungamento dell’età pensionabile previsto dalla riforma Fornero. Per le ultracinquantenni continuare a lavorare significa aver molto meno tempo per fare le nonne o prendersi cura dei propri genitori. Un cuscinetto di welfare casalingo offerto a più generazioni in contemporanea da quella che è stata definita “generazione sandwich”. La funzione di baby sitting dei nonni è risaputa: dalla tabella 1 vediamo che l’Italia è seconda solo alla Romania in quanto a cura “intensiva” dei nipoti da parte dei nonni.   

Tabella 1: percentuale di nonne impegnate nella cura dei nipoti

 Fonte: Glaser et al. (2013, 8).

Una seconda ragione è che le donne, le italiane ancor più delle europee, sottovalutano il rischio di scarsa indipendenza economica in terza e quarta età. Secondo il sentire comune, ciò che conta non è quanto prende di pensione lei in assoluto o rispetto a lui, bensì quanto si prende complessivamente in famiglia. Si dà per scontato che si spartisca e di buon accordo, e si sottovaluta il problema di cosa succede quando si rimane soli. Se è lui che manca e c’è una pensione di reversibilità adeguata, bene. Ma in caso di divorzio o se la reversibilità è esigua, c’è un alto rischio che la donna anziana non sia economicamente indipendente e non abbia un reddito sufficiente a garantirsi una vecchiaia dignitosa. Tra le anziane sole il rischio di povertà è pari al 13,7%: due punti in più rispetto agli uomini. Le separazioni che riguardano uomini ultrasessantenni sono passate da 4.247 del 2000 a 11.265 del 2012 (dal 5,9% al 12,8% del totale delle separazioni). Per le donne over 60, nello stesso periodo, si va dalle 2.555 del 2000 (pari al 3,6%) alle 7.569 del 2012 (8,6%). Ma è sempre più diffusa e importante l’attività di cura dei “grandi vecchi” da parte dei giovani anziani o di quelli che si affacciano alla terza età. In presenza di invalidità medio-bassa dell’anziano può bastare un’assistenza leggera, che però spesso non è compatibile con un’attività lavorativa dagli orari rigidi. Nella maggior parte dei paesi europei l’età media dei familiari che forniscono assistenza agli anziani è più di 50 anni. L’idea diffusa sembra essere che la perdita economica verrebbe compensata dal non dover pagare un servizio di cura o più comunemente una badante. Le donne tendono dunque a sacrificare il proprio portafoglio guardando al bilancio familiare.

Abbiamo già descritto su inGenere come il valore dell’indipendenza economica, specie in relazione all’anzianità, sia poco sentito nel nostro paese. Il paradosso della popolarità dell’opzione donna è però spiegabile anche con ragioni specifiche legate alla struttura del nostro sistema pensionistico, in cui il numero di pensioni erogate è più alto del numero dei pensionati, data la possibilità di cumulare diversi tipi di pensioni. E le donne ne cumulano più degli uomini, in parte per ragioni di invecchiamento, arrivando a sommare per esempio invalidità civile, pensioni di reversibilità, pensione di anzianità.

L’Istat calcola che fra i beneficiari di una sola pensione le donne siano leggermente sotto-rappresentate mentre si contano circa 1 donna e mezza per ogni uomo fra coloro che ricevono 2 pensioni, e più di due donne per ogni uomo fra coloro che ricevono 3 trattamenti. Poniamo il caso che l’opzione donna comporti per la signora Bianchi una decurtazione della pensione di anzianità del 20%. Se oltre alla pensione di anzianità la signora Bianchi percepisce altri trattamenti, la riduzione sul reddito complessivo sarebbe minore. Ma di riduzione pur sempre si tratta.

Puntare dunque su una maggiore occupazione femminile è la via maestra per mettere al riparo un numero maggiore di persone dal rischio di finire in povertà nella propria vecchiaia. Occorre però valutare con attenzione che serve una certa continuità contributiva molto difficile nell’attuale mercato del lavoro (dove i pochi lavori disponibili sono part-time) e con le attuali regole previdenziali (con il calcolo della pensione basato sui contributi versati). Le donne, dal canto loro, dovrebbero essere più consapevoli della perdita determinata da carriere frammentate e dell’estrema importanza di occuparsi delle loro finanze. Molto utili sarebbero perciò programmi di alfabetizzazione finanziaria, e lo sviluppo di servizi di assistenza e consulenza finanziaria ripensati al femminile, come in questo esempio di cui abbiamo scritto di recente.

 

 

 

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Note

(1) L’articolo 1 comma 9 della legge 243/04 (allora comunemente detta legge Maroni) prevedeva in via sperimentale la possibilità, per le lavoratrici con 35 o più anni di contributi, di accedere alla pensione a 57 anni (58 per le autonome), ma accettando di calcolare la cifra da ricevere con un sistema meno vantaggioso, quello contributivo e non più quello retributivo. In tutto, dal 2009 fino al primo ottobre 2014, le pensioni liquidate con regime sperimentale riservato alle lavoratrici sono state 25.095 (dati forniti dall’Inps).

(2) Le circolari n. 35 del 14/03/12 e n. 37 del 14/03/12.