I dati europei lo confermano, il gap di genere nella ricerca aumenta con l'avanzamento delle carriere. E in Italia dopo il dottorato sono soprattutto le donne a lasciare
Ricercatrici. Il gap è negli
avanzamenti di carriera
Attorno al nodo 'donne e scienza' si articolano dibattiti di natura sia politica sia gestionale. L’Unione europea da oltre 15 anni promuove progetti e iniziative tese a trovare possibili vie di soluzione ai diversi problemi riscontrati.
Nell'ultima versione dell’Innovation Strategy dell’Oecd - nel capitolo dedicato alle risorse umane, ai talenti e alle competenze - viene trattato anche questo tema e ci si focalizza sulle carriere nel settore della ricerca accademica, con particolare attenzione al superamento degli ostacoli di genere nelle carriere scientifiche. L’invito è proprio a riflettere sulle opportunità che il contesto della ricerca scientifica può attualmente offrire alle donne, tenendo conto che la strada da percorrere è tortuosa e che per scardinare meccanismi costituiti è necessario intervenire fin dai criteri di selezione, di valutazione, e di assegnazione delle risorse, oltre che pretendere trasparenza nelle procedure decisionali.
Come sostiene una recente analisi del CNR[1], questo è vero ancor più per le ricercatrici, la cui professionalizzazione, costituendo un fenomeno relativamente recente rispetto ad altre professioni intellettuali, coinvolge norme e schemi comportamentali non ancora sedimentati.
Naturalmente, le questioni sono molteplici e di diversa natura. Prima di tutto, il pregiudizio inconscio e radicato che le donne siano inadatte a ricoprire un determinato ruolo, che genera problemi a causa dello scarto tra la percezione che si ha di sé e la realtà delle competenze che si possiedono, che vengono quindi sottodimensionate. Poi, le incertezze e le complicazioni che si incontrano all’accesso, in fase di reclutamento - dove spesso i selezionatori tendono a preferire profili maschili - ma anche nel corso della progressione di carriera, basti pensare ai dibattuti concetti di “leaky pipeline” (lett. tubo che perde) o dello “sticky floor” (lett. pavimento scivoloso) condensati in dati che dimostrano come a parità di titolo di studio si ampli via via una forbice nell’avanzamento di carriera.
Figura 1. Proportions of men and women in a typical academic career, students and academic staff, EU-27, 2002 e 2010
Fonte: Commissione europea, She figures, 2012.
Nonostante la legislazione italiana sia piuttosto avanzata in materia di parità di trattamento - si pensi alla legge n. 903/77 in tema di parità di trattamento sul lavoro; o alla 125/91 in tema di azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna; o anche alla 53/2000 sui congedi parentali - la prassi quotidiana è ancora molto distante dal piano normativo.
La figura 2 illustra l’andamento, in termini di numerosità, della presenza femminile nelle carriere di ricerca pubblica in Italia tra il 2001 e il 2013, e si riferisce alla distribuzione del personale nel comparto enti di ricerca. Nonostante la presenza femminile sia diventata più massiccia negli anni, mostrando un incremento piuttosto regolare, gli uomini restano in posizione maggioritaria nel corso del tempo.
Figura 2. Personale nel comparto degli Enti Pubblici di Ricerca in Italia (2001 – 2013)
Fonte: MEF, nostre elaborazioni grafiche.
In Italia, in realtà, le premesse sarebbero confortanti. Tra coloro che si iscrivono e ottengono un dottorato di ricerca la percentuale di ragazze è del 52% rispetto al 48% di ragazzi[2], il divario inizia a crearsi con l’avanzare della carriera e tende ad acuirsi sempre di più.
Ovviamente le ragioni di questo gap sono da attribuire a fattori diversi[3]. Si assiste da un lato a un fenomeno di abbandono della carriera da parte delle giovani donne, che decidono di non proseguire la propria attività di ricerca, soprattutto a livello di post-dottorato, ovvero tra i 30 e i 35 anni, quando molte decidono di crearsi una famiglia e risentono della mancanza di una stabilità lavorativa. Esistono poi, come ricordato sopra, ragioni legate a fattori che influenzano la percezione di sé.
Diversi studi dimostrano come, per il solo fatto di essere una donna, una scienziata venga percepita come meno autorevole: uno stesso articolo scientifico può esser considerato più attendibile se reca in calce la firma di un uomo rispetto a quella di una donna, e i curricula tendono a essere valutati secondo lo stesso criterio[4].
In linea con le numerose iniziative che la Commissione europea sta portando avanti, è necessario dunque sostenere cambiamenti strutturali che promuovano le stesse opportunità per donne e uomini negli istituti di ricerca, portando a un aumento della partecipazione femminile e quindi a un miglioramento dei percorsi di carriera per le donne.
La speranza è che non sia troppo lontano il tempo di una scienza differente, in grado di valorizzare le diversità e di affrontare senza timore le sfide rilevanti che il mondo ci pone. Partire dalle giovani ricercatrici significa investire nell’intelligenza anche in un paese come il nostro, che al momento, per la maggior parte delle scienziate, resta un terreno fertile solo per la formazione.
NOTE
[1] Avveduto S., Antonucci M., Chioatto M., La presenza femminile negli enti pubblici di Ricerca italiani (2000-2012). Dati, trend, interpretazioni, in Avveduto S., Pisacane L. (a cura di), Portrait of a Lady, Gangemi Editore, 2014.
[2] Commissione europea, She Figures, 2012.
[3] MIUR, Anagrafe nazionale degli studenti
[3] Scienza, genere e società. Prospettive di genere in una società che si evolve. A cura di Sveva Avveduto, Maria Luigia Paciello, Tatiana Arrigoni, Cristina Mangia, Lucia Martinelli (2015). Roma: CNR-IRPPS e-Publishing. doi 10.14600-1/43/978-88-98822-08-9