Politiche

Cosa accade dopo l'approdo sulle coste italiane e greche quando a chiedere asilo sono le donne. Quello che dicono e non dicono i dati

Se a chiedere asilo
sono le donne

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Foto: Flickr/tom albinson

È dato reale che il numero di donne e uomini in arrivo verso l’Europa, prevalentemente via mare sulle coste italiane e greche, segni un tempo storico inedito e rilevante. Tuttavia, esso ci informa su gravità e violenze dello scenario geopolitico che circonda lo spazio europeo, e sulla mobilità forzata che costringe le persone a cercar terra di protezione e sicurezza. Ben lontane sono le letture a forti tratti mistificanti che parlando di "crisi dei rifugiati" distolgono l’attenzione dalle feroci crisi vissute nei luoghi di provenienza e transito - con cui i paesi dell'Unione europea hanno storicamente costruito relazioni e portato avanti accordi - e dalla crisi dell'Europa, che con le sue politiche istituzionali si sta mostrando inadeguata e ingiusta nell’individuare una seria e strutturale politica d’assistenza e protezione.

Quando si parla d’asilo è ancora forte la convinzione che violenze e soprusi siano legati esclusivamente ai paesi d’origine e di transito, relegate pertanto al tempo passato. Difficilmente si pensa alle forme di continuità della violenza, e ai modi con cui sopraffazioni sociali e istituzionali caratterizzino anche i luoghi in cui si chiedono protezione e sicurezza investendo tempo presente e futuro di coloro che, arrivate vive sulla terraferma, entrano in una lunga e rigida traiettoria d’asilo che a stento le riconosce come soggettività politiche e sociali.

Non è solo la selezione spostata lontano dagli occhi e dai confini d’Europa a definire l’accesso all’asilo. Vicissitudini ed esperienze vissute dalle donne potenziali rifugiate dopo l’approdo mostrano nel concreto quanto il percorso verso la protezione – o la sua negazione – contempli esposizione a situazioni di vulnerabilità e sopraffazione nei luoghi deputati all’accoglienza. Controllo e sorveglianza, relazioni umanitarie d’assistenza che guardano alle donne esclusivamente come vittime o figure da educare o emancipare, e forme d’abbandono istituzionale investono direttamente corpi e soggetti decidendo gradi di legalità e condizioni di permanenza sul territorio.

Cosa dicono e non dicono i dati

Sono per primi i dati di prefettura a dar conto delle donne approdate, con comunicati quali per esempio: 307 migranti sbarcati, fra cui 34 donne, alcune incinte. Nella sezione Mediterranean Crisis, che riporta dati sugli arrivi via mare in Italia e Grecia, Unhcr ha recentemente aggiunto un paragrafo dedicato al Gender Breakdown of Arrivals che aggiorna i dati sulle donne approdate sulle coste dei due paesi, principali punti d’ingresso nel territorio dell'unione. I dati Eurostat permettono, combinando le tabelle, la disaggregazione di genere per provenienza, età, paese in cui si è fatta domanda e decisioni finali sulla sua valutazione. Nel 2015 hanno chiesto asilo nei 28 paesi Ue 1.321.600 persone (1.349.638 secondo l'ufficio europeo per il supporto alle pratiche d'asilo - che pur seguendo i trends dell’asilo suddivisi per nazionalità non informa sulle suddivisioni di genere), 366.785 erano donne.[1]

Nel 2013, erano 141.895 donne su un totale di 431.090 domande, e 186.080 nel 2014 su 626.960. In Italia, nel 2015, le domande d’asilo delle donne erano 9.720 su un totale di 84.085, 4.930 nel 2014 su 64.625, e 3.655 nel 2013 su 26.620. Il sito del Ministero dell’Interno rende pubblici i dati sulla presenza di asilanti sul territorio nazionale. Rispetto al 2014, offre altresì una mappatura regionale e provinciale delle presenze di richiedenti, differenziando anche la tipologia di centro. Tuttavia, non sono indicate le strutture per donne, né vi sono dati disaggregati per genere. Anche il documento che specifica l’andamento mensile del 2015, fornendo dati sulle nazionalità e sulle risposte delle domande analizzate, limita i numeri sulle donne alle domande presentate, senza specificazioni sulle nazionalità, né sulle risposte.

Seppur utili nel dar conto dello scenario migratorio, i dati si limitano spesso a registrare quei punti specifici – arrivo/sbarco e decisione finale degli organi preposti alla valutazione della domanda di protezione - in cui la traiettoria dell’asilo incontra burocrazia e istituzioni, oltre che a ridurre la presenza delle donne a un tratto specifico di una migrazione ancora normalizzata e universalizzata al maschile. Con una certa urgenza, occorre render terreno d’indagine sociale e istituzionale quel che accade fra l’arrivo e l’ultima tappa burocratica dell’asilo, per comprendere lo scarto fra la garanzia formale e sostanziale del suo esercizio.  

Oltre i numeri, condizioni d’attesa e sopraffazione

Era il 2008 quando iniziai quella che sarebbe diventata una lunga ricerca etnografica sulle rifugiate arrivate in Italia via mare dopo esser transitate dalla Libia, nell’intento di far emergere l’interazione fra la memoria traumatica della fuga e le diverse forme di violenza e sopraffazione cui esse erano esposte nelle società dette di protezione e accoglienza. Partii dalle città del nord Italia, andando nelle strutture d’accoglienza specifiche per donne raccogliendo le loro storie migratorie e il vissuto nelle maglie spesso feroci degli apparati burocratici e umanitari. Arrivai poi, lì radicando le mie ricerche, nei luoghi d’approdo delle coste siciliane e nelle strutture – centri governativi come i Centri d'accoglienza per richiedenti asilo (Cara) e varie tipologie di campi straordinari sorte in seguito a repentine invocazioni d’emergenza – dove donne, uomini e bambini erano trattenuti in attesa di una risposta dalle commissioni per l’asilo.

Quali immaginari sulle donne circolano nei campi, in quali modi avviene il controllo, e a quali rischi e soprusi sono esposte nei luoghi in teoria garanti sicurezza, integrità e protezione? Rispetto agli uomini, che con più facilità finiscono sotto l’immaginario della clandestinità o della pericolosa invasione, le donne rientrano in un immaginario più mite, legato al soggetto vulnerabile da proteggere, ma altrettanto potente e pervasivo.

Nei campi governativi, l’immaginario sulle donne richiedenti si spingeva ben oltre il modello della vittima da aiutare o della femina sacra da salvare. A una rigida disciplina della vita quotidiana all’interno dei campi – richiesta di permessi per uscire, controllo della posta personale, impossibilità di ricevere visite, controllo della mobilità esterna al campo e altre regole ancora – si affinacavano forme meno evidenti di sorveglianza, ma potenti nel voler costruire determinati tipi di soggettività femminili. Le relazioni d’assistenza includevano suggerimenti, rimproveri, sgridate, consigli vincolanti elargiti alle rifugiate su come prendersi cura di sé e dei figli, sui giusti comportamenti da tenere dentro e fuori i campi.

Valutazioni del maternage e controllo delle attività di cura – nutrimento e pulizia dei bambini erano svolte sotto lo sguardo attento delle figure d’assistenza con regole poste anche sulle giuste misure di latte e sapone - occupavano altrettanto l’educazione data alle rifugiate. Il mandato umanitario era dunque ambizioso: un controllo pervasivo e minuzioso si sovrapponeva alla volontà pedagogica e morale che vedeva queste donne – immigrate, nere, povere, sofferenti – come soggetti femminili da rendere "moderni" e da "emancipare" verso modelli di genere, culturali e di maternage pensati più progrediti e responsabili di quelli di cui le donne erano portatrici.

Se fra il 2008 e il 2014 furono principalmente i Cara a destar preoccupazione, durante l'operazione Mare Nostrum, oltre 1.800 strutture straordinarie sorsero sul territorio nazionale. Opacità nelle procedure d’assegnazione, agenzie umanitarie sorte sull’eco del momento, spesso del tutto incompetenti e inappropriate rispetto alle dinamiche migratorie, luoghi materialmente indecenti caratterizzarono un piano emergenziale d’accoglienza inizialmente parallelo a quello governativo. Dinanzi all'aggravarsi del trattamento riservato a chi, per aver chiesto asilo, era tenuta in confinamento protratto e condizioni di vita materiale e sociale ridotte spesso al minimo della dignità e del riconoscimento, divenne sempre più urgente la responsabilità di far emergere situazioni di sofferenza e marginalità caratterizzanti molti luoghi di permanenza.

A un modello umanitario di controllo pervasivo e minuzioso, si affiancò un sistema fatto d’abbandono istituzionale a situazioni di profonda vulnerabilità e sofferenza con pesanti ricadute sui rifugiati tutti, ma in particolare sulle donne. Condizioni che mettono a serio rischio sicurezza sociale e integrità del corpo e della persona le registrai nel corso del 2014, quando lavorando a un report di ricerca e fotografia sull’asilo in Italia[2] incontrai giovani donne, perlopiù del Corno d’Africa e Nigeria, che anche in stato gravido vivevano in condizioni materiali ai limiti dell’igiene e della salute, consumando solo cibo precofenzionato e in ambienti non protetti, talvolta insieme a uomini loro sconosciuti. In alcuni casi, pur essendo state fotosegnalate all’arrivo, dopo mesi nei centri non avevano ancora compilato il modello C/3 che formalizza la domanda d’asilo, allungando i già protratti mesi d’attesa per l’audizione in commissione e gettando su esse angoscia, sfiducia e paura.

Il Rapporto sulle condizioni di accoglienza Cara di Mineo, curato da Medici per i diritti umani (Medu) nel 2015, che ancora registra oltre 3.000 persone trattenute in situazioni ai limiti della dignità materiale e sociale, descrive, fra le altre, esposizione alla prostituzione anche minorile, povertà estrema e abbandono a situazioni di vulnerabilità per l’assenza di cure mediche e psichiche vissute dalle donne. Accogliere: la vera emergenza. Rapporto di monitoraggio su accoglienza, detenzione amministrativa e rimpatri forzati - documentazione curata per LasciateCIEentrare da Yasmine Accardo e Gabriella Guido (2016) costruita su visite dirette ad alcuni centri d’accoglienza parla chiaro: donne in situazioni di promiscuità, lasciate senza informazioni legali, in assenza o quasi di possibilità d’accesso a strutture mediche e ginecologiche appropriate. È una profonda arbitrarietà giocata sui corpi delle donne, sulla loro vita sociale e affettiva quella che emerge: secondo i luoghi cui sono assegnate o portate, riceveranno aiuti o sostegni, o saranno destinatarie d’interferenze continue nello svolgimento delle loro attività di cura del sé o dei figli, o ancora abbandonate alla loro memoria traumatica e a una protezione assente.

Paradossalmente, in questo scenario d’attesa incerta sono spesso soprusi e violenze vissuti durante il transito o nel paese d’origine a rimanere in ombra. Ancora si registra nei centri detti d’accoglienza una certa incapacità di cogliere segni e conseguenze della violenza o del trauma, o ancora sono assenti luoghi e tempi appropriati per dar spazio alla narrazione della violenza. Senso d’ingiustizia, sfiducia, sospetto e una percezione d’invisibilità dinanzi a chi di loro dovrebbe occuparsi hanno costruito un ulteriore modello di controllo e potere. Sia chiaro: la realizzazione di ricerche e monitoraggi dipende anche dalle persone che hanno ruoli d’assistenza, e con rigore cercano nelle difficoltà estreme di portare avanti al meglio il loro lavoro. Spesso sono operatori e operatrici i primi a sentirsi abbandonati dalle istituzioni a situazioni d’incompetenza e precarietà. Diventa ancor più stridente allora il richiamo a una responsabilità istituzionale e politica nel far penetrare marginalità e sofferenza nella vita di chi chiede asilo.  

Seppur le direttive del Common European Asylum System (CEAS) impongano condizioni d’accoglienza garanti dignità, protezione e sicurezza sociale, fisica e materiale, e agenzie umanitarie internazionali stiano istituendo organi di monitoraggio – per esempio, Advisory Group on Gender, Forced Migration, Displacement and Protection di Unhcr sorto nel febbraio 2016 – uno scarto ancor troppo evidente esiste fra direttive formali e condizioni reali di permanenza. È questo scarto a dover esser indagato per gettar luce sulle forme evidenti del controllo e d’abbandono, sulle maschere assistenziali e umanitarie che spesso celano violenze istituzionali, razzializzazione delle politiche, meccanismi di forte sopruso e sopraffazione.

NOTE

[1] Il dato comprende domande di prima e seconda istanza.