Politiche

Uno studio spiega chi sono le proprietarie di seconde case in Italia e che ruolo hanno nella gestione di questi immobili

Seconde case: sogno di una vita
o investimento sbagliato?

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foto Flickr/Grant Hutchinson

Nei paesi sviluppati il valore dell’abitazione di residenza rappresenta una percentuale molto alta della ricchezza delle famiglie e ciò è vero in particolare per l’Italia, dove nel 2012 rappresentava mediamente il 54.57%. Percentuale che diventa ancora più alta (63,80%) se si considerano anche altre proprietà immobiliari diverse dalla casa di residenza.[1] 

Anche se non è sempre facile stabilire il nesso causale, l’elevata immobilizzazione della ricchezza di una famiglia in 'case' ha sicuramente implicazioni su una serie di altre scelte famigliari, che vanno da quelle lavorative, a quelle di pensionamento o di investimento nell’istruzione dei figli, e può contribuire o meno alla salute finanziaria del nucleo famigliare.[2] 

Inoltre, se l’acquisto dell’abitazione di residenza è motivato principalmente da finalità di consumo primario (quello abitativo, appunto), l’acquisto di altri beni immobili corrisponde a una pluralità di obiettivi. Si pensi all’acquisto di immobili per necessità lavorative, a fini di investimento, ereditari o per il tempo libero. Limitandoci ai soli immobili ad uso abitativo, possiamo più generalmente parlare di seconde case, la cui proprietà è molto diffusa in varie parti del mondo, come evidenziano le indagini campionarie sulle famiglie di alcuni paesi (es. Stati Uniti, Italia, Spagna e persino Cina). Ciononostante il fenomeno delle seconde case è stato molto poco analizzato nella letteratura economica sul tema delle proprietà immobiliari. 

In un nostro recente studio ci siamo occupate di seconde case, ponendoci una difficile domanda. Le seconde case delle famiglie italiane rappresentano il realizzarsi del sogno di una vita o finiscono piuttosto ad essere un investimento sbagliato? Ad esempio, la tanta agognata casa per le vacanze o per i figli viene effettivamente poi adibita a tali usi o rimane più frequentemente inutilizzata?  

Per rispondere a queste domande abbiamo analizzato l’uso che le famiglie effettivamente fanno delle seconde case, con lo scopo principale di capire quali sono le determinanti di quelli che sono usi 'non profittevoli'. Ci siamo basate sui dati della Banca d'Italia relativi alla Indagine sul reddito e la ricchezza delle famiglie italiane. Il periodo considerato, 2002-2012, è recente, ma sufficientemente lungo da includere sia un picco sia un minimo del mercato immobiliare e gli effetti della crisi finanziaria. Ci siamo poi concentrate sugli usi 'non profittevoli', che abbiamo identificato come corrispondenti al caso in cui la seconda casa sia non affittata oppure concessa gratuitamente o in usufrutto, e che rappresentano un terzo del campione esaminato.[3] Infine abbiamo stimato l’associazione tra l’uso 'non profittevole' delle seconde case e tre gruppi di possibili determinanti: quelle demografiche, quelle economico-finanziarie e quelle descrittive delle caratteristiche dell’immobile stesso. 

Per meglio inquadrare i differenziali di genere che emergono dalla nostra analisi è utile sottolineare alcune diversità fra proprietari di seconda casa.[4]  Innanzitutto, sul campione delle famiglie che hanno anche una seconda casa, i capofamiglia donna rappresentano il 30%. Ma chi sono le donne proprietarie di seconda casa? Hanno un'età media di 57 anni, con una concentrazione nella fascia di età 40-60, sono sposate nel 50% dei casi (contro l’85% dei proprietari uomini), con un titolo di studio mediamente maggiore perché più frequentemente laureate (15% contro il 12% dei proprietari uomini) e con un reddito famigliare mediano di circa 38mila euro annui, maggiore del reddito mediano di tutti i proprietari di case (pari a 33mila euro annui). Nel complesso quindi le donne che hanno una seconda casa sembrano essersela 'guadagnata' nel tempo, con lo studio e con il lavoro.

Secondo le nostre stime sulle determinanti di un uso 'non profittevole', mentre l’età non conta, all’aumentare del livello di istruzione diminuisce la probabilità di un uso non profittevole, come del resto ci si poteva attendere se si interpreta l’istruzione come proxy di educazione finanziaria. Interessante è il risultato su genere e stato maritale: gli uomini (rispetto alle donne) e le coppie (rispetto ai single) finiscono più spesso per fare un cattivo uso delle seconde case.[5] Se il risultato sul genere sembra indicare che gli uomini più delle donne possono “permettersi questo errore” di valutazione nell’acquisto di una seconda casa, per le coppie è forse l’obiettivo di mantenere una casa per i figli che potrebbe indurre a tenerla sfitta. 

Per quanto riguarda le caratteristiche economico-finanziarie della famiglia, queste non hanno grande rilevanza rispetto all’uso della seconda casa. Al contrario molto importanti sono le caratteristiche dell’immobile: a parte l’ovvio rilievo di location e valore per metro quadro, le nostre stime sottolineano che le case ricevute in eredità sono quelle che più frequentemente rimangono non utilizzate. Inoltre, nelle coppie, se la proprietà è congiunta anziché individuale i dati indicano una maggior attenzione nell’evitare un uso non profittevole (forse per effetto della presenza della donna nel processo decisionale?). 

I nostri risultati sono leggibili in relazione ai grandi cambiamenti che hanno caratterizzato in questi ultimi anni sia il mondo del lavoro sia la struttura famigliare. La mobilità e flessibilità richiesta ai giovani nel lavoro spesso costringono ad un uso non profittevole della casa acquistata come futura residenza dei figli, mentre famiglie sempre più piccole e vecchie riducono la probabilità di altri usi della seconda casa (es. per vacanze).

Complessivamente le analisi svolte, oltre a fornire alcuni spunti di riflessione sulla bontà delle scelte di portafoglio delle famiglie italiane, meritano attenzione in termini di policy in quanto il fenomeno delle case non utilizzate può avere implicazioni sull’offerta soprattutto nel mercato degli affitti.

Riferimenti bibliografici

Brunetti M., C. Torricelli, 2015, Second homes: households' life dream or (wrong) investment?, Working Paper Cefin. 

Brunetti M., Giarda E., Torricelli C.,  2015, "Is Financial Fragility a Matter of Illiquidity? An Appraisal for Italian Households", Review of Income and Wealth, forthcoming.

 

NOTE

[1] Dati calcolati dagli autori sulla base dell’Indagine dei Bilanci delle Famiglie Italiane, Banca Italia, 2012.

[2] In un precedente lavoro in collaborazione (Brunetti, Giarda e Torricelli, 2015) abbiamo definito la fragilità finanziaria di una famiglia come quella condizione – diversa dalla povertà - nella quale la famiglia è in grado di coprire col proprio reddito le spese attese, ma non ha quel minimo di riserve liquide per affrontare una spesa inattesa. I risultati delle stime fatte per l’Italia dimostrano che le famiglie con un portafoglio troppo immobilizzato nella casa sono più fragili, e ciò è ancor più vero per le donne.    

[3] Si noti che i risultati dell’analisi non cambiano qualora si restringa la definizione di 'non profittevole' al solo caso di casa sfitta. 

[4] In queste analisi ci riferiamo in realtà al genere del capofamiglia inteso come il responsabile delle scelte economico e finanziarie della famiglia (vd. Banca Italia). Si noti però che nel 77% dei casi il capofamiglia è l'unico proprietario e, nel 98% dei casi, oltre ad essere il decisore, è proprietario di almeno il 50% dell'immobile.

[5] La probabilità di un uomo è di 3,6 punti percentuali  superiore a quella di una donna e quella di una coppia di 5,4 punti percentuali rispetto ai singles.