Politiche

Se il jobs act aveva lasciato l’amaro in bocca a chi sperava in un deciso cambio di rotta verso l’uguaglianza di genere, il DEF varato dal Governo lascia ben sperare. Indicazioni importanti arrivano su tre fronti: occupazione, istruzione e rappresentanza nelle liste elettorali. Vediamo quali

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Come ha ricordato recentemente Christine Lagarde, direttrice del Fondo Monetario Internazionale, l’Italia è uno dei paesi in Europa che incoraggia meno la partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Con il nostro 46.7% di tasso di occupazione femminile, continuiamo a mantenere le ultime posizioni nelle statistiche europee e l’occupazione femminile resta uno degli elementi più deboli del nostro mercato del lavoro. Il dato stride con le raccomandazioni dell’Europa, che ha fissato per il 2020 un obiettivo del 75% per il tasso di occupazione maschile e femminile. Un vero e proprio miraggio per l’Italia.
Eppure l’occupazione femminile rappresenta un motore di crescita e di sviluppo, una risorsa preziosa soprattutto in un momento di crisi economica. Un messaggio questo che, sebbene venga condiviso tra studiosi, policy-makers e molti cittadini, non si è ancora tradotto in azioni concrete, seppure con qualche eccezione (1).
Dal nuovo governo ci aspettiamo molto. Metà dei ministri donne, cinque capoliste alle europee nel Partito del premier, le recenti nomine delle società pubbliche, sono segnali di riconoscimento del valore della parità di genere. Ma per avvicinarsi agli obiettivi europei abbiamo bisogno di azioni concrete, misure efficaci e politiche coraggiose. Difficili, in tempi di spending review e di crisi economica. Ma necessarie.
Le prime mosse del nuovo governo sono state proprio nel campo più critico per l’uguaglianza di genere nel nostro Paese, quello del lavoro e dell’occupazione, attraverso il cosiddetto Jobs Act. I piani del Jobs Act tuttavia non promettono grandi miglioramenti per le donne, come sottolineato da Chiara Saraceno, a causa delle minori tutele insite nel maggiore utilizzo di contratti brevi. Già oggi il 15% delle donne che lavorano ha impieghi a tempo determinato, una percentuale superiore a quella maschile.
Aspettavamo quindi al varco il Documento di Economia e Finanza, per trovare indicazioni sulle azioni che il governo intende fare. Nel DEF individuiamo l’attenzione alla parità di genere in tre ambiti: occupazione, istruzione e politica.

OCCUPAZIONE E TAX CREDIT

il DEF riprende la proposta di introdurre “un tax credit, quale incentivo al lavoro femminile, per le donne lavoratrici, anche autonome, con figli minori e che si trovino al di sotto di una determinata soglia di reddito complessivo della donna lavoratrice, e l’armonizzazione del regime delle detrazioni per il coniuge a carico”. Il tax credit è pensato come elemento incentivante per le potenziali madri lavoratrici con redditi bassi. Gran parte del nostro basso tasso di occupazione femminile è riconducibile alle madri, i cui tassi di occupazione precipitano alla nascita di ogni figlio, senza poi ristabilirsi sui valori medi della coorte di appartenenza con l’aumentare dell’età dei figli. A differenza di quanto accade negli altri paesi europei, in Italia l’uscita è per lo più definitiva. Così come la bassa partecipazione al mercato del lavoro delle donne con livelli di istruzione primaria e secondaria inferiore - e quindi potenzialità di reddito contenute - contraddistingue l’Italia rispetto agli altri paesi Europei. Un incentivo fiscale focalizzato sulle madri lavoratrici con basso reddito appare quindi appropriato per risollevare l’occupazione femminile. Rilevante anche la messa in discussione dell’attuale detrazione per il coniuge a carico, che in effetti rischia di disincentivare l’occupazione femminile per i redditi bassi: dovendo scegliere tra il reddito aggiuntivo della donna e la perdita della detrazione per coniuge a carico, non necessariamente una famiglia con reddito basso ha convenienza a optare per l’ingresso della donna sul mercato del lavoro. L’offerta di lavoro da parte delle donne non è tutto. L’occupazione dipende anche dalla domanda di lavoro da parte delle imprese, che è tuttora ancora debole e che può condizionare il successo di questa misura.
L’elemento del tax credit si accompagna nel DEF all’importanza di misure volte a rendere possibile la conciliazione dei tempi di lavoro con le esigenze genitoriali. In particolare, “l’obiettivo che si vuole raggiungere è quello di evitare che le donne debbano essere costrette a scegliere fra avere dei figli oppure lavorare”. Ci auguriamo che questo si traduca in maggiori servizi di cura alla prima infanzia, e in un monitoraggio dei costi di tali servizi. (2)

Se l’obiettivo è non arrivare a considerare conveniente abbandonare il lavoro, perché non disegnare un sistema di sgravi fiscali che tenga conto totalmente delle spese sostenute dalla madre lavoratrice per i servizi di cura dei figli? Un sistema per cominciare anche a ripensare su basi più eque e più efficienti la cura della prima infanzia, ancora ampiamente dipendente dalla disponibilità dei nonni italiani.

Partendo dalla considerazione che l’Italia è uno dei Paesi europei con minore spesa per servizi alla

famiglia, pari a circa 1,58% del PIL (si veda figura 1), nostre stime di qualche anno fa, condotte con Lidia Ceriani e Silvia Sacchi, mostravano che un trasferimento o una detrazione di imposta pari alle spese di cura sostenute dalle famiglie in cui entrambi i genitori (o l'unico genitore, nel caso di famiglie monoparentali) lavorino, e in cui ci sia almeno un bambino al di sotto dei 3 anni comporterebbero una spesa pubblica aggiuntiva in percentuale del PIL dello 0,482%. Anche senza considerare eventuali risparmi derivanti dal taglio della detrazione per coniuge a carico, questo incremento ci lascerebbe comunque tra i Paesi europei fanalini di coda per spesa pubblica per le famiglie.

L’obiettivo della conciliazione, sottolinea il DEF, si raggiunge anche con orari di lavoro più flessibili, necessari non solo in caso di responsabilità genitoriale, ma anche per permettere l’assistenza degli anziani, emergenza sempre più sentita nel Paese con il maggiore tasso di invecchiamento in Europa.

 

ISTRUZIONE E POLITICA

 

Il DEF  evidenzia l’importanza dell’istruzione, sia maschile che femminile, per il rilancio dell’economia italiana. Il nostro Paese soffre di carenza di capitale umano: la percentuale di laureati è inferiore a quella del resto d’Europa. Un maggiore investimento in istruzione significa lavoro più qualificato e maggiore crescita del Paese. L’istruzione delle donne dà segnali molto positivi, che vanno monitorati e rafforzati: la percentuale di donne laureate, pari al 15,7% per la coorte di età 15-64, è ormai superiore a quella degli uomini laureati, che rappresentano solo il 13% della popolazione maschile tra i 15 e 64 anni.

Il DEF richiama anche alla politica e più precisamente alla legge elettorale: “le liste di candidati dovranno garantire la presenza paritaria di uomini e donne e nella successione interna non possono esserci più di due candidati consecutivi del medesimo sesso”. Il DEF quindi recepisce la necessità di stabilire l’alternanza di genere nelle liste dei candidati alle elezioni come fondamentale per garantire la presenza femminile e potenzialmente la parità di genere tra i politici eletti. Uno studio recente (Baltrunaite et al., 2013) ha dimostrato che le quote di rappresentanza di genere  possono avere effetti benefici sulla qualità della classe politica: non si tratta solo di avvicinarsi alla parità numerica, ma anche di mettere in moto meccanismi di selezione incentivanti. Dovendo prestare attenzione al genere dei candidati, i partiti avranno più incentivi a compiere una selezione accurata di tutti i candidati, uomini e donne. Alcune analisi hanno evidenziato come il meccanismo delle quote di genere possa essere ulteriormente rafforzato dalla combinazione con la doppia preferenza di genere, come sperimentato nelle elezioni municipali a partire dal 2013: questo duplice dispositivo incrementa la presenza femminile sia tra le donne candidate che tra le donne elette. In assenza della possibilità di esprimere una preferenza, come previsto per le elezioni nazionali, un vincolo sulla modalità di composizione delle liste per genere, al di là di un obbligo di rispetto dell’equilibrio numerico tra uomini e donne, sembra quindi necessario. Una maggiore presenza di donne elette si potrà accompagnare ad una diversa agenda decisionale, più attenta ai bisogni delle famiglie e ai problemi sociali, terreno fertile per promuovere l’adozione di misure appropriate per una maggiore partecipazione delle donne al mondo del lavoro.

 

Fonte: OECD, 2013

 

(1)    La legge 120/2011 è stato l’unico vero cambiamento nelle politiche di genere del nostro Paese. L’introduzione di quote di rappresentanza di genere per i consigli di amministrazione e collegi sindacali delle società quotate e a partecipazione pubblica, pur nella sua portata rivoluzionaria, è tuttavia una misura pensata per le posizioni di vertice e non per aumentare il tasso di occupazione femminile, anche se, indirettamente, potrebbe comportare qualche effetto positivo in un meccanismo a cascata capace di propagare l’attuazione della parità dal vertice verso il basso.

(2)    Un segnale positivo in questa direzione viene dal disegno di legge in discussione in Commissione Istruzione al Senato (ddl1260) che prospetta la destinazione di risorse aggiuntive all’istruzione tra gli 0 e i 6 anni, sottraendo questa voce di spesa da quelle sottoposte al patto di stabilità.

 

Riferimenti bibliografici

 

Ceriani, L., Casarico, A., Profeta, P. in collaborazione con Silvia Sacchi, Corriere Economia 8/2/2010

Baltrunaite, A., Bello, P., Casarico, A., Profeta, P. Gender quotas and the quality of politicians, Fedea wp 2013-11

Casarico, A., Profeta, P., Savio, G. 2014, An assessment of gender quotas and double preference voting in Italian municipalities, mimeo, Università Bocconi.