Linguaggi

Pillole contraccettive e test di gravidanza hanno rivoluzionato la vita delle donne, ma hanno anche avuto il potere di proiettare sui loro corpi significati non immediatamente visibili generando controllo e oppressione. Ne parliamo con Laura Tripaldi, a partire dal suo saggio Gender tech. Come la tecnologia controlla il corpo delle donne (Laterza, 2023)

Tecnologie
dei corpi

10 min lettura
Tecnologie dei corpi
Credits Unsplash/Fanni Dmtr

"Per quanto possa apparirci paradossale in un'epoca di certezze scientifiche, non è così facile stabilire dove comincia e dove finisce il nostro corpo", scrive Laura Tripaldi nell'introduzione a Gender tech. Come la tecnologia controlla il corpo delle donne

In un momento storico in cui associamo automaticamente alla parola "tecnologia" tutto ciò che, in maniera più o meno diretta, ci riporta al mondo del digitale, questo saggio, pubblicato dalla casa editrice Laterza a settembre 2023, propone una riflessione sulla materialità di tutte quelle tecnologie che proiettano uno sguardo sui corpi delle donne. Sguardo che, come ci ricorda l'autrice, non è neutro, ma intriso di significati storici, culturali e politici, di cui è necessario essere consapevoli, soprattutto se vogliamo provare a riappropriarci dei nostri corpi, oltre che delle tecnologie.

Scrittrice e scienziata, Laura Tripaldi ha conseguito un dottorato di ricerca in Scienza e nanotecnologia dei materiali e lavora come ricercatrice indipendente. Ha pubblicato Menti Parallele. Scoprire l'intelligenza dei materiali (effequ, 2020), tradotto in inglese nel 2022 e in spagnolo nel 2023, e Corpi ambigui. Sguardi, genere, tecnologia (Einaudi, 2021). L'abbiamo raggiunta per un'intervista.

La parola "tech" contenuta nel titolo del tuo libro indurrebbe a pensare che tratti di tecnologie magari ancora sconosciute, futuristiche, ma in ogni caso digitali.

Il titolo del libro è stato pensato con l'obiettivo di descriverne sinteticamente il contenuto, che è sì chiaro, ma non facilissimo da definire in poche parole, cioè la riflessione sul rapporto tra il corpo delle donne e lo sguardo tecno-scientifico. Parlare di tecnologia oggi non è semplice: tutti ormai usiamo questa parola, e soprattutto la associamo in maniera automatica al mondo del digitale – anche per colpa di un certo giornalismo che ha deciso di equiparare le due cose. In realtà la tecnologia andrebbe sempre intesa come una categoria più generale. Io ho studiato chimica e ho un dottorato in scienza e ingegneria dei materiali, quindi intendo e osservo la tecnologia per prima cosa dal punto di vista materiale. Mi interessava poi provare a riflettere su come certe tecnologie emergono nella società e su quali sono i processi materiali, fisici, che ci portano ad averle tra le mani.

Gender tech parla di tecnologie "pratiche", che tutte le donne hanno sperimentato almeno una volta nella vita.

Siamo circondati da tecnologie, solo che spesso non le riconosciamo come tali. Penso che sia però importante guardare ad alcuni oggetti e dispositivi che incontriamo quotidianamente come tecnologie. È anche un modo per farci delle domande più profonde su come funzionano, da dove vengono, che effetto hanno sulle nostre vite. In particolare, le tecnologie che ho scelto di descrivere nel mio libro riguardano il corpo delle donne e svolgono tutte una doppia azione: guardare la natura e allo stesso tempo costruirla, modificarla e trasformarla.

Laura Tripaldi
Laura Tripaldi

Che cosa accomuna lo speculum, la pillola, il test di gravidanza, l'ecografia e le app di monitoraggio del ciclo mestruale? 

In primo luogo, queste tecnologie proiettano uno sguardo sul corpo delle donne. Uno degli aspetti più interessanti per me era proprio cercare di capire come quella che abbiamo imparato a conoscere come la "natura del corpo" sia in realtà il risultato di una costruzione, e quindi di una mediazione, di questi strumenti tecnologici che ci permettono di osservarla. Si va quindi dallo speculum, che di questo è l'esempio più rudimentale, a una serie di tecnologie molto più complesse, biochimiche, come la pillola e il test di gravidanza, oppure come l'ecografia, che rendono questo sguardo ancora più elaborato, impercettibile. In secondo luogo, c'è il tema della modificazione, cioè il fatto che le tecnologie – la pillola in questo caso è l'esempio più evidente – trasformano e modificano la natura: non sono delle semplici osservazioni, ma hanno degli effetti sul modo in cui noi ci percepiamo e ci comportiamo socialmente, sulla nostra identità. Hanno, insomma, un impatto politico e sociale.

Uno degli aspetti più interessanti del tuo libro è il fatto che tu rintracci la genesi di queste tecnologie – che noi diamo per scontate ma che in realtà non sono sempre esistite; ne racconti la storia.

Questo approccio storico è stato molto importante per me, perché parte anche dalla volontà di non considerare il sapere e l'oggettività scientifica come qualcosa di universale, che è sempre esistito, e di provare a capire come la conoscenza che abbiamo sul corpo si sia in realtà costruita nel tempo. Questo vale anche per il corpo naturale, che non è un fatto che esiste da sempre: ha una storia, che corrisponde alla storia degli strumenti e delle tecnologie che sono stati usati per osservarlo e dei modelli e delle teorie scientifiche e mediche che abbiamo utilizzato per comprenderlo. Questo significa anche che può cambiare in base agli strumenti, tecnologici e teorici, che scegliamo di utilizzare a questo scopo.

È stato difficile reperire questo tipo di informazioni?

A livello di processo, queste storie non le ho ricostruite ma recuperate: fortunatamente, in maniera molto frammentata e in misura diversa per ciascuna di queste tecnologie, sono già state scritte. A questo proposito, la raccolta delle fonti e poi la stesura della bibliografia che si trova in fondo al libro sono state un processo molto importante, che mi ha permesso di rendermi conto che il tipo di lavoro che stavo facendo non era sospeso nel vuoto, ma che esisteva in una lunga genealogia di autrici e autori – io ho attinto in particolare dall'antropologia medica – che anche in anni recenti hanno fatto un'opera preziosa, raccogliendo i vari tasselli che compongono queste storie.

gender tech

Al centro del tuo libro c'è il concetto di "materializzazione", ci racconti di cosa si tratta?

Il concetto di materializzazione è il fondamento teorico principale di questo lavoro. Nell'accezione in cui lo intendo nel libro, a livello filosofico è stato formulato per la prima volta da Judith Butler , che lo ha utilizzato per approfondire il suo lavoro sulla performatività e in parte anche per proteggerlo da alcune accuse che le sono state rivolte. Butler, infatti, ha aperto la strada all'idea che il genere, quindi il corpo sessuato, sia una costruzione sociale. Ovviamente, elaborare una concezione di questo tipo significa incorrere in tutta una serie di problematicità. Quindi, per cercare di capire come le identità e i corpi comunicano in una cornice che va al di là del determinismo biologico, c'era bisogno di una nuova parola, di un nuovo modo di approcciare la domanda. Il termine "materializzazione" cerca di rispondere proprio alla questione per cui il corpo non è una materia preesistente, ma si materializza come risultato dell'azione di una serie di sguardi, di teorie e di strumenti tecnologici che proiettano sul corpo stesso la sua realtà.

Puoi farci un esempio concreto?

L'esempio più semplice che mi viene in mente è quello sul feto, che per noi è molto facile intendere come un corpo che c'è sempre stato o come un fatto naturale. Se però andiamo a vederne la storia, per tantissimo tempo, cioè fino all'Ottocento, nessuno si immaginava il feto come lo immaginiamo noi oggi, cioè come un soggetto separato dal corpo della donna che lo ha generato. Fino a quel momento la gravidanza era qualcosa di estremamente privato per le donne, vissuta non tramite una visualizzazione del feto come una specie di immagine nella loro testa, ma attraverso la percezione fisica, corporea, di quell'esperienza. Perciò, in questo senso, il feto per come noi lo conosciamo si è, a un certo punto, come "materializzato" grazie alla tecnologia dell'ecografia, perché prima non era visibile. Del resto, la volontà stessa di vedere il feto risponde in realtà a un'esigenza politica prima che scientifica.

Nel capitolo del tuo libro dedicato alla pillola contraccettiva, parlando di emancipazione dalle tecnologie, riporti una citazione della poeta e attivista Audre Lorde, che nel 1979 affermò che "gli strumenti del padrone non smantelleranno mai la casa del padrone".

Per come il libro è strutturato, secondo me è molto facile pensare che io stia dando un giudizio morale su queste tecnologie o che io voglia vederle come buone o cattive. In realtà tutto parte da un grande interesse, una grande fascinazione e anche da una certa fiducia nelle tecnologie. Tuttavia, quando si parla di tecnologie che controllano il corpo delle donne, è molto importante cercare di capire chi le controlla, da dove viene lo sguardo che viene proiettato sul corpo e quali sono i significati sociali e politici che queste tecnologie si portano dietro. Questa è una domanda che attraversa tutto il libro; dopodiché, quello che si dovrebbe cercare di fare non è tanto emancipare le donne dalle tecnologie, quanto, piuttosto, emancipare le tecnologie da chi le ha prodotte. Non so se sia sempre possibile, ma è interessante valutare questa possibilità.

Come possiamo oggi, in quanto donne, vivere nel paradosso per cui delle tecnologie che dovrebbero – e storicamente lo hanno fatto – emanciparci sono anche strumenti di controllo sui nostri corpi, nel migliore dei casi create opprimendo altre categorie di donne (non bianche e non occidentali) o sfruttando altri esseri viventi?

Prendiamo lo speculum come esempio. È un dispositivo che ha una storia violenta, perché nasce dalla violenza coloniale nelle piantagioni del Sud degli Stati Uniti, dove il medico che lo inventò fece esperimenti sui corpi delle schiave afroamericane. Poi però, a partire dagli anni Settanta, ha cominciato a essere rivendicato come uno strumento di autocoscienza femminista, e ancora oggi ci sono gruppi di donne e attiviste che lo utilizzano come un modo per riappropriarsi dello sguardo sul corpo. Anche la pillola e gli ormoni sintetici in generale hanno una storia di violenza e oppressione. Però quella stessa tecnologia, cioè la possibilità di produrre ormoni sintetici e la comprensione che questi possono trasformare i nostri corpi, è qualcosa che poi può essere utilizzata anche in forme emancipative, per esempio per la transizione delle persone transgender.

Le tecnologie, quindi, non sono neutre?

Io non credo che si possa affermare che lo siano; dipende da come le si usa: le tecnologie emergono da un insieme di forze sociali e politiche che portano con sé i loro significati, di cui dobbiamo come prima cosa essere consapevoli, se vogliamo provare a riappropriarcene. Uno dei motivi per cui ho scritto questo libro è proprio in vista di una possibile riappropriazione di queste tecnologie: penso che il punto zero sia capire da dove vengono.

Liberare le donne dall'obbligo riproduttivo, come dice l'economista Premio Nobel Claudia Goldin, è stato fondamentale per consentire alle donne di proiettarsi nella sfera pubblica, mentre liberare la sessualità dalla riproduzione ha aperto degli spazi di libertà che hanno messo a tema il piacere delle donne.

Innanzitutto, il fatto stesso che la pillola sia stata "necessaria" affinché le donne potessero studiare dice molto sul mondo in cui viviamo e sulle strutture di potere in cui siamo immerse. Bisogna fare attenzione a non confondere la libertà e l'emancipazione con la soddisfazione di un paradigma di produttività liberale, capitalista. Questo non significa, d'altro canto, pensare che le donne debbano rimanere incinte senza il loro consenso, ma essere consapevoli del fatto che quello strumento porta con sé un certo tipo di emancipazione che potrebbe essere funzionale al mantenimento di uno status quo. Io credo che sicuramente le tecnologie, in particolare le tecnologie di genere e riproduttive, abbiano il potenziale di rendere il mondo migliore e creare una società più equa. Rimane però la questione, anche per le tecnologie più emancipative, dell'accesso, delle disparità che producono. Nel caso della contraccezione ormonale, ad esempio, è evidente come una tecnologia che può emancipare me, una donna bianca, ricca dell'Occidente borghese, in realtà possa essere poi usata come strumento di dominio e di violenza o di genocidio, addirittura su una minoranza oppressa: l'abbiamo visto a Portorico, negli Stati Uniti. Recentemente è emerso un caso in Groenlandia di donne inuit a cui era stata impiantata senza il loro consenso la spirale.

Se le tecnologie fossero il prodotto dei reali bisogni delle persone, quali potrebbero essere quelle per liberare il piacere e consentire le scelte? 

Forse sarebbe importante provare a coltivare delle forme di rapporto dal basso con la tecnologia, che siano meno verticali: ormai abbiamo fatto l'abitudine all'idea che la tecnologia ci venga data in mano da qualcuno che ha più potere di noi e che ci guadagna. Nei decenni passati però, in particolare negli anni Novanta, c'era invece molto entusiasmo verso una visione più orizzontale della tecnologia, la possibilità di viverla in maniera più distribuita. Questa cosa si è un po' persa negli ultimi vent'anni e mi chiedo se non sia possibile, o se a un certo punto non sentiremo il bisogno di riappropriarci davvero delle tecnologie, di costruirle anche dal basso; il che non vuol dire accettare quello che invece viene fatto ormai di routine nella Silicon Valley, cioè avere donne imprenditrici (come con le app di period tracking, trattate nell'ultima parte del libro, ndr) e startup al femminile e simili. C'è bisogno di pensare a dei modelli alternativi.

Riferimenti 

J. Butler, Gender trouble: feminism and the subversion of identity, Routledge, New York, 1999. Edizione italiana, Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell'identità, Laterza, Roma-Bari, 2013