Una ricerca sulla salute in Europa arriva al nervo scoperto messo a nudo dalla pandemia: la salute non è un valore isolabile, dipende da fattori culturali, ambientali, economici. Ecco perché sono soprattutto le donne ad assumere farmaci e a finire dallo psichiatra
In un articolo pubblicato dal New England Journal of Medicine nel 1991, la cardiologa Bernardine Healy, direttrice dell’Istituto Nazionale di Salute Pubblica americano la definiva "sindrome di Yentl", prendendo in prestito il nome della protagonista del racconto di Isaac Bashevis Singer per denunciare quello che riscontrava come un dato di fatto: le donne e gli uomini si ammalano diversamente, ma la ricerca medica e la farmacologia si basano prevalentemente su corpi e vissuti maschili.
Significa che sintomi e malattie particolarmente diffusi tra le donne sono sotto-diagnosticati, che le donne sono spesso assenti dai così detti clinical trials, che gli effetti collaterali più comuni nella popolazione femminile vengono ignorati in fase di sperimentazione e diffusione delle terapie.
Oggi sappiamo che a fronte di una maggiore aspettativa di vita, le donne si ammalano di più rispetto agli uomini, e sono le prime consumatrici di farmaci. Questo dipende solo parzialmente da fattori biologici, un ruolo cruciale lo svolgono i modelli sociali e culturali, e le economie che ne derivano.
I dati aggiornati arrivano da un report appena diffuso dalla Commissione europea che fa il punto sul gap di genere nella salute in Europa. "Nel corso della loro vita, le donne sono più soggette degli uomini a patologie croniche e debilitanti" spiegano le autrici Paula Franklin, Clare Bambra e Viviana Albani, esperte di salute pubblica nel Regno Unito. In questo la biologia c'entra fino a un certo punto, confermano, le donne si ammalano perché "più colpite da condizioni socioeconomiche e psicosociali sfavorevoli".
Come il fatto che gli uomini muoiono prima (5,8 anni in media), anche quello che le donne si ammalano di più (l'1,8 per cento, che diventa il 3,6 per cento dopo i 65 anni) sembra dipendere dal modo in cui le società sono strutturate, dalla divisione di ruoli su cui si reggono, e dalla costante che alle donne viene precluso un accesso pieno alle risorse.
"La tensione tra lavoro e famiglia colpisce in modo particolare la salute fisica e mentale delle donne" scrivono le autrici nell'introduzione al report, perché "le donne hanno più probabilità di trovarsi nella condizione di crescere i figli da sole, di essere disoccupate o non pienamente occupate a causa di responsabilità di cura e, storicamente, hanno avuto un accesso ridotto all'istruzione".
Affidandosi alle principali statistiche europee e alla letteratura aggiornata in materia, il report conferma che mentre gli uomini sono più soggetti a morti improvvise e a incidenti sul lavoro, sono soprattutto le donne a soffrire di uno stato di cattiva salute, ad andare incontro a dolori cronici, alle conseguenze più gravi dell'obesità, a malattie correlate ad attività logoranti e a problemi di salute mentale.
Alla base di queste differenze c'è sicuramente un "make-up biologico e genetico" diverso, spiegano le autrici, e un diverso funzionamento dei sistemi immunitario e ormonale – anche se, aggiungono, la ricerca scientifica è ancora all'inizio quanto a produzione di evidenze. Ma la parte più importante la giocano i fattori sociali, economici e di politiche pubbliche.
Il modello familiare incentrato sul male-breadwinner, sulla piena occupazione maschile, e la costruzione di una mascolinità che si riconosce in condotte dannose per la salute – come la dipendenza da alcool, o l'assunzione di comportamenti pericolosi – mostrano bene perché sono gli uomini a morire prima e in condizioni accidentali, di auto-danneggiamento per uso di sostanze, o di traumi sul lavoro.[1]
È lo stesso paradigma che giustifica che il numero di uomini che chiedono aiuto al sistema sanitario o farmaceutico sia sempre inferiore a quello delle donne, tanto più nel caso di depressione e problemi di salute mentale. Non stupisce se a fronte di una minore percentuale di uomini che si dichiarano depressi siano proprio gli uomini a suicidarsi di più (con un gap del 12,5 per cento ogni 100mila abitanti).[2]
Al cospetto di questi dati, e fatta eccezione per gli eventi completamente indipendenti dalle proprie condotte, potremmo dire ragionando per estremo che in un quadro prima ancora che sociale culturale di questo tipo, un uomo piuttosto che ammalarsi preferisce morire, e una donna piuttosto che morire preferisce curarsi. Questo dice molto sulla femminilizzazione dei nostri modelli di cura e sui nostri modelli di mascolinità.
Insomma, le donne si ammalano anche perché lo riconoscono. Sono infatti le principali consumatrici di farmaci (il gap è del 12 per cento nelle fasce più giovani di popolazione e tende a ridursi con la fine dell'età fertile perché tra i farmaci considerati sono inclusi i contraccettivi), e quelle che in misura maggiore si rivolgono a uno specialista. Questo, c'è da dire, a fronte di una classe dirigente medica e di specialisti ancora prevalentemente maschile.
Con tutte le differenze geografiche del caso, in media è il 2,5 per cento in più delle donne a riconoscere i sintomi della depressione e sono sempre più le donne che gli uomini a ricorrere a terapie psicologiche o psichiatriche.[3] In linea con questa tendenza, uno studio diffuso dalla rivista European Psichyatry della Cambridge University press conferma che le donne sono anche le prime ad assumere psicofarmaci.
Fonte: Eurostat, 2014
Il legame tra salute e genere si fa quindi particolarmente complesso: le donne vivono vite fortemente medicalizzate, in un contesto dove, a livello sia statistico che d'immaginario, l'esperto è maschio e la persona da guarire è femmina. Tale semplificazione si radica nel profondo di economie e politiche pubbliche per la salute, e assume connotati del tutto particolari nel caso della salute mentale. Il confine tra una cartella clinica e l'immagine distorta di un cervello anormale o inferiore perché appartenente a una donna diventa sottile.
Anni fa, in un'intervista su differenze di genere e neuroscienze, Francesca Cirulli, prima ricercatrice del Centro di riferimento per le scienze comportamentali e la salute mentale dell'Istituto Superiore di Sanità e President elect della European Brain and Behavior Society, ci raccontava la depressione come una malattia al limite tra biologia e costruzione sociale, con forti implicazioni legate al sesso. Oggi Cirulli fa parte di una rete internazionale di esperte impegnate a colmare i divari di genere nei filoni di ricerca che afferiscono alle cosiddete brain sciences.
Il punto è tutto qui, cercare di migliorare il modo in cui si fa scienza e si produce conoscenza. Il valore principale del report appena diffuso è allora proprio quello di articolare il discorso attorno a un nervo che la pandemia ha mostrato particolarmente scoperto: la salute non è un valore isolabile, ma rappresenta il risultato del complicato incrocio tra fattori biologici, culturali, ambientali ed economici.
Note
[1] Secondo la ricerca per ogni 100mila abitanti muoiono in media sul lavoro 2047 uomini e 969 donne.
[2] È un dato che riguarda l'età adulta, sappiamo dai rapporti sullo stato della popolazione nel mondo dell'Unfpa che a livello globale il suicidio è diventato la seconda causa di morte per le ragazze tra i 10 e i 19 anni, e la prima tra i 15 e i 19.
[3] Il report, che dedica un focus alle differenze di genere nella pandemia, rifacendosi a uno studio uscito su The Lancet sottolinea che è possibile che la salute mentale delle donne sia stata provata in misura sproporzionatamente maggiore dagli effetti dell'isolamento prolungato richiesto dai lockdown, proprio perché sono più soggette ai sintomi dell'ansia e della depressione.
Riferimenti
Paula Franklin, Clare Bambra, Viviana Albani, Gender equality and Health in the EU, European commission Directorate-General for Justice and Consumers, 2021
Claudia Bruno, Scorticate e fatte a pezzi, NOT, Nero Edition, 2018
Unfpa, State of World population, 2016
Aa.Vv., Gender differences in psychotropic use across Europe: results from a large cross-sectional, population-based study, European Psychiatry, Cambridge University Press, 2015
Bernardine Healy, The Yentl Syndrome, New England Journal of Medicine, 1991