Le persone esauste lavorano male, investire sulla qualità del lavoro e sul benessere di chi lavora ripaga le imprese in termini di competitività e produttività. A dirlo è un nuovo studio dell'Inapp
Si parla molto di lavoro, ma se ne parla spesso in termini quantitativi: il lavoro c’è, il lavoro non c’è, c’è poco lavoro, serve più lavoro. Non si parla quasi mai della qualità del lavoro: in quali condizioni si lavora in Italia?
Un tema importante in un paese dove le persone lasciano o rifiutano il lavoro per le condizioni considerate critiche (una great resignation in salsa italica) e in cui il discorso pubblico sembra oscillare tra la critica ai giovani che non si accontentano (bamboccioni, choosy, sdraiati) o l’esaltazione dell’eroico sacrificio di chi, pur di lavorare, accetta qualunque condizione come, per esempio, la giovane bidella che pendolerebbe tra Napoli e Milano.
Insomma, il messaggio è: il lavoro è brutto, il lavoro è fatica ma l’importante è lavorare, non importa a quali condizioni.
In questo panorama è di particolare interesse uno studio dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (Inapp) a cura di Tiziana Canal, Valentina Gualtieri e Matteo Luppi che mette in relazione la qualità del lavoro e la competitività delle imprese.
Lo studio parte dalle riflessioni di Luciano Gallino e Michele La Rosa e costruisce gli indicatori per misurare la qualità del lavoro in cinque dimensioni.
- Economia: non solo la retribuzione, ma anche la sicurezza economica e la sua certezza nel tempo, ossia la sostenibilità del lavoro.
- Ergonomia: il benessere psico-fisico, quindi la salubrità dell’ambiente umano e dello spazio fisico.
- Complessità: quante e quali risorse intellettuali chi lavora deve attivare per affrontare le mansioni richieste, così come le opportunità di formazione e di carriera.
- Autonomia: la possibilità di determinare autonomamente gli obiettivi e le strategie per raggiungerli, ad esempio gestendo i ritmi di lavoro.
- Controllo: la possibilità di partecipare alla definizione del processo di verifica del lavoro.
Usando queste categorie il gruppo di ricerca mette in luce la carenza di qualità del lavoro, giungendo ad alcune conclusioni, che in realtà non fanno altro che confermare le disuguaglianze che dividono l’Italia.
Le donne risultano penalizzate nei campi della dimensione economica (guadagnano meno), dell’autonomia (lavorano in posizioni basse) e del controllo (subiscono maggiormente il controllo). Le motivazioni riguardano le disuguaglianze di genere nel mercato del lavoro – la discriminazione in entrata e quella nella retribuzione – e la sproporzione nel carico delle mansioni di cura, che spesso implicano rinunce forzate in termini di partecipazione (se si lavora, quanto tempo si lavora) e quindi di investimento personale nella carriera.
Nel caso dei giovani, il problema, come per le donne è nell’accesso al mercato del lavoro, ma una volta dentro la dimensione economica è penalizzante: retribuzioni ridotte, contratti precari e spesso anche la complessità è un problema perché le mansioni richieste non sono coerenti con il titolo di studio posseduto.
Al sud Italia si evidenzia una peggiore qualità del lavoro in termini economici, ergonomici e di controllo. Il divario territoriale si conferma quindi come un elemento critico nel sistema produttivo del paese.
Lo studio di Canal, Gualtieri e Luppi conferma risultati noti: donne, giovani, occupati del Mezzogiorno, hanno lavori di scarsa qualità. Il titolo di studio non protegge queste persone dalle cattive condizioni lavorative. I dati sul lavoro delle donne ci dicono in particolare che anche quando parliamo di lavori altamente qualificati rimangono in una fascia di qualità bassa. Un altro dato importante da sottolineare è la scarsa mobilità sociale: chi è all’apice del mercato del lavoro e gode di migliore qualità di rado perde la propria posizione, chi invece parte svantaggiato, raramente riesce a conquistarsi un impiego migliore. Insomma la qualità del lavoro diventa appannaggio di alcuni, e quindi un privilegio: chi ce l’ha non lo perde, chi non ce l’ha non lo acquisisce.
Se questa è la qualità del lavoro guardata da chi lavora, cosa succede se la mettiamo in relazione con le imprese?
Due anni di pandemia hanno messo a dura prova il tessuto produttivo, ma hanno anche accelerato alcuni processi in termini di gestione del lavoro e sviluppo di tecnologie che consentissero l’adozione di nuove soluzioni.
Per Tiziana Canal “i dati mostrano che per aumentare la qualità del lavoro dei dipendenti, le imprese devono migliorare la gestione delle risorse umane e puntare sull’innovazione. Chi lo ha fatto ha visto accrescere la propria competitività nei mercati e contemporaneamente il work-life balance dei propri dipendenti.”
I parametri per valutare la qualità del lavoro per quanto riguarda le imprese riguardano infatti gli investimenti nella gestione delle risorse umane, i modelli organizzativi e le scelte strategiche relative. La ricerca ha evidenziato che solo l’8,2% delle imprese italiane, le cosiddette imprese smart, si sono caratterizzate per la propensione all’investimento nelle risorse umane sia in termini contrattuali che formativi. Aziende di piccole dimensioni, con 50-249 persone impiegate, che hanno adottato modelli organizzativi flessibili e strategie rivolte all’innovazione. Non a caso, sono le stesse aziende che hanno resistito all’impatto negativo dovuto alla crisi pandemica e riportato risultati migliori in termini di rendimento e di fatturato.
“Nella quasi totalità delle imprese smart l’introduzione di cambiamenti ha generato un incremento della produttività, ma anche un aumento del benessere e della motivazione dei lavoratori, i quali sono inseriti in contesti che garantiscono una forte stabilità lavorativa” commenta Matteo Luppi.
Il punto importante che la ricerca dimostra è che la qualità del lavoro può essere legata al successo finanziario e anche alla capacità di affrontare imprevisti e crisi economiche, le aziende dove si lavora meglio sono anche quelle più resilienti di fronte a una crisi. Detto in un altro modo: la qualità del lavoro è un investimento che ripaga.
Purtroppo, le cosiddette imprese smart rappresentano una piccola percentuale nel panorama nazionale, caratterizzato invece da strutture poco flessibili: una classe dirigente per lo più composta da uomini di età medio-alta legati ai propri privilegi, che adotta la bassa qualità del lavoro come strategia per ridurre i costi produttivi, non valorizzando il contributo di donne e giovani. Sono le stesse aziende che stentano a investire nell’innovazione e nella formazione dei propri dipendenti.
Secondo Valentina Gualtieri si potrebbe recuperare il famoso more and better jobs, che invitava ad aumentare i livelli occupazionali europei tenendo conto della qualità e sottolineando la relazione tra le condizioni di lavoro, gli investimenti in capitale umano, la salute e la sicurezza sul posto di lavoro e i livelli di produttività.
In conclusione, lo studio Inapp ribadisce come “l’esperienza positiva dell’8% delle imprese italiane che ha messo in pratica questa lezione, dovrebbe stimolare la riflessione di politici, imprese e parti sociali coinvolte, affinché i futuri investimenti siano orientati in modelli di sviluppo meno fragili e più sostenibili.“
Il dibattito pubblico sulla qualità del lavoro potrebbe partire proprio da questi risultati che provano come l’investimento sulle risorse umane possa incidere positivamente sulla competitività delle imprese.
Riferimenti
Tiziana Canal, Valentina Gualtieri, Matteo Luppi, Le determinanti di un buon lavoro durante l’emergenza sanitaria, Inapp, 2023