Politiche

La doppia violenza contro le donne migranti, quando la legge diventa un ostacolo in più

Uscire dalla violenza, per
le migranti è più difficile

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Foto: Unsplash/ Derek Torsani

In Italia la quota di donne migranti che dichiara di aver subito violenza fisica o sessuale è pressoché identica a quella delle donne italiane (31,3% contro 31,5%) ma, come precisa la Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio e ogni forma di violenza di genere nella relazione approvata il 6 febbraio 2018, le forme di violenza cui le migranti sono esposte sono molto gravi e si registrano sia all'interno di relazioni instaurate nel paese di origine (68,5%) che nel contesto delle relazioni in Italia (19,4%).

La fotografia corrisponde all’esperienza dell’associazione Differenza Donna, da tempo impegnata nel contrasto alla violenza degli uomini sulle donne, che accoglie oltre mille donne l’anno in uscita dalla violenza. Di queste, le migranti rappresentano ormai il 50%.

In adesione all’analisi prodotta in sede internazionale dal movimento delle donne, la Commissione parlamentare d'inchiesta sul femminicidio ha incluso tra le forme di violenza di genere anche la tratta di esseri umani con finalità di sfruttamento sessuale che riguarda un’altissima percentuale di giovani donne e minori straniere. Tuttavia, le peculiarità della condizione delle donne migranti e il peso che le norme in materia di immigrazione hanno sul loro percorso di uscita dalla situazione di violenza avrebbe richiesto da parte della Commissione un focus più ampio e articolato nonché l’individuazione di rimedi specifici per contrastare le cattive prassi esistenti sul territorio e che minano l’effettività del loro accesso alla giustizia.

Dall’esperienza dell’associazione Differenza Donna sappiamo che le donne migranti che vivono sul nostro territorio non ricevono adeguate informazioni sugli strumenti predisposti dalla legge in caso di violenza, ma anche in generale in merito alla tutela dei diritti fondamentali assicurata a tutte a prescindere dalla regolarità sul territorio italiano, soprattutto in tema di diritto alla salute. In questa direzione si muovono i progetti promossi a livello europeo dall’associazione Differenza Donna, tra cui il progetto Women Empowerment Integration Partecipation, sostenuto dal Fondo europeo per l’integrazione e la migrazione (AMIF) – che mira a potenziare in quattro paesi le possibilità per le donne migranti di integrazione nel tessuto sociale, attraverso attività di empowerment sociale e lavorativo – e il progetto SAFETYnet realizzato nell’ambito del programma Daphne della Commissione europea, con l’obiettivo di assicurare alle donne migranti vittime di violenza di genere accesso a servizi di protezione adeguati. 

Lo status di migrante costituisce, infatti, per le donne cittadine di paesi extraeuropei un fattore di vulnerabilità prodotto e rafforzato dall’ordinamento stesso che aumenta il rischio di subire violenza di genere, come da tempo hanno segnalato l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa e molte organizzazioni della società civile

Le donne migranti, se regolarmente presenti sul territorio, hanno di solito un titolo di soggiorno dipendente da quello del familiare a cui si sono ricongiunte[1]. Ma accade di frequente, secondo l’esperienza dell’associazione Differenza Donna, che le donne migranti regolarmente soggiornanti non dispongano materialmente di permesso di soggiorno né del passaporto, perché sottratti dall’uomo maltrattante. Oppure che il permesso di soggiorno alla scadenza non venga loro rinnovato dal marito. Si consideri infatti che presso le questure è diffusa la prassi di richiedere la presenza fisica del familiare a cui è collegato il permesso di soggiorno per motivi familiari: ciò riduce l’autonomia delle donne nella gestione degli adempimenti relativi alla propria regolarità sul territorio, inibendo anche la richiesta di conversione del titolo in permesso di soggiorno autonomo e a tempo indeterminato.

Inoltre, le disposizioni in materia di permesso di soggiorno per motivi familiari[2] stabiliscono la revoca del titolo di soggiorno nel caso venga meno la convivenza: le donne sono quindi a rischio di ricadere nell’irregolarità se decidendo di fuggire dalle violenze e richiedere la separazione. L’indicazione delle questure in tali casi è quella di richiedere il rilascio del permesso specifico previsto dall’art. 18 bis del decreto legislativo 286 del 1998, ma ciò limita la possibilità di convertire il titolo di soggiorno ai soli casi in cui vi sia una denuncia, mentre sono a rischio di scivolare nell’irregolarità le donne senza figli che si siano limitate ad agire in sede civile chiedendo l’allontanamento e la separazione per motivi di violenza di genere.

Ancora più difficile è la situazione delle donne migranti prive di titolo di soggiorno, per le quali, agli ostacoli comuni che tutte le donne affrontano per uscire da una situazione di violenza nelle relazioni intime e familiari, si aggiunge il rischio dell’espulsione e della detenzione amministrativa, come documentato dalle associazioni attive in Italia nella difesa dei diritti delle donne. 

Gli stessi autori delle violenze sono a conoscenza di tale prassi e non esitano a impaurire le donne smorzando ogni loro iniziativa e minacciandole di ulteriori violenze dal momento che neppure l’intervento delle forze dell’ordine potrà valere a salvarle.

La repressione dell’immigrazione irregolare prevale così sugli obblighi di garanzia dei diritti fondamentali ed è diffusa sul territorio la prassi dell’avvio della procedura di espulsione e il trattenimento presso i centri di permanenza per il rimpatrio immediatamente dopo la querela. Questo senza che nessuno si preoccupi delle condizioni psicofisiche della denunciante, né tenga conto dell’obbligo che secondo il diritto internazionale le autorità statali hanno di assicurare adeguata protezione e assistenza alle donne che hanno subito o sono a rischio di subire violenza di genere, anche attraverso l’adempimento di obblighi informativi sugli strumenti che prevede la legge, tra cui il permesso di soggiorno.[3]

Questa disposizione prevede il rilascio di un titolo di soggiorno alle donne che abbiano denunciato violenza domestica. L’avvio di un procedimento penale costituisce quindi un presupposto, ma non è la presentazione della denuncia-querela a spaventare le donne migranti[4] bensì la non conoscenza della misura e la difficoltà poi di beneficiarne.

La Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio ha segnalato che dal 2013, anno di introduzione dello specifico permesso di soggiorno, sono stati rilasciati centoundici titoli di soggiorno, una media di trenta l’anno.

Un numero basso, che ci dice che l’istituto rimane pressoché sconosciuto, non di rado agli stessi operatori del diritto non specializzati, e che esistono degli ostacoli nella sua attuazione. In questo senso, incide la diffusione di pregiudizi discriminatori nei confronti delle donne migranti.

Non è raro, infatti, che nelle motivazioni degli atti dei difensori degli indagati, o nei provvedimenti delle autorità giudiziarie, la credibilità delle donne migranti venga messa in dubbio proprio in ragione della richiesta del permesso di soggiorno previsto dalla legge. Com'è accaduto per un caso patrocinato dall’avvocata Teresa Manente, responsabile dell’ufficio legale dell’associazione Differenza Donna, dove il giudice per l’udienza preliminare ha ritenuto la donna migrante, che denunciava il marito per gravi maltrattamenti, non credibile perché richiedeva il rilascio del titolo di soggiorno e ha pronunciato quindi sentenza di "non luogo a procedere". Sul caso, in seguito a diverse proposte di ricorso, è intervenuta la Corte di Cassazione che ha annullato la decisione evidenziando "la manifesta illogicità della lettura offerta della condotta dell’offesa laddove costei aveva richiesto il permesso di soggiorno dopo aver sporto denuncia"[5], con conseguente rinvio al giudice di merito per proseguire il processo.

La richiesta di permesso di soggiorno non può essere pertanto considerata un elemento che mina l’attendibilità delle donne che hanno il coraggio di denunciare, ma costituisce esercizio dei propri diritti fondamentali. Diritti, che non possono essere compressi durante i processi a causa di pregiudizi discriminatori e argomentazioni tutt'altro che tecnico-giuridiche.

Note

[1] Nei paesi membri dell’Unione europea generalmente si accede a un titolo di soggiorno autonomo solo dopo il decorso di un periodo di tempo che varia da uno a cinque anni (il cosiddetto probationary period utile a scongiurare matrimoni fittizi volti ad aggirare la normativa sui visti) e, di conseguenza, le donne il cui titolo di soggiorno dipende da quello del coniuge/familiare maltrattante temono di scivolare nell’irregolarità a seguito della loro fuga dalle violenze.

[2] Art. 30 D. lgs. 286/1998

[3] Ex art. 18 bis D. lgs. 286/1998.

[4] Secondo la relazione della commissione parlamentare, il tasso di denuncia delle donne straniere rimane più elevato di quello che riguarda l’accesso delle donne italiane alla giustizia.

[5] Corte di Cassazione, sez VI, n. 16498/2017