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Per molte giovani la maternità è un diritto impossibile. Ma non si risolve il problema con un assegno universale, svincolato dal diritto a un reddito e a un lavoro decente. Una critica ad alcune proposte del gruppo Maternità&Paternità: cambiare il welfare è necessario, ma senza salti all'indietro

Vogliamo davvero pagare
le madri in quanto madri?

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Le sei proposte del Gruppo Maternità e Paternità (M&P), riassunte su questo sito dall'articolo di Marina Piazza e Anna Maria Ponzellini, hanno il merito di richiamare l’attenzione su un problema fondamentale nella vita di migliaia di donne e uomini. Vogliono cioè contribuire a costruire un welfare che “allarghi la possibilità di scelta delle madri e dei padri nelle strategie di cura tra servizi pubblici, servizi di mercato e cura diretta, evitando però di incoraggiare la rinuncia all’occupazione da parte delle donne”. Obiettivo più che valido, ma complesso. Su questo tema si cammina sempre lungo un pericoloso crinale, con da una parte il pericolo di precipitare nell’eccesso di tutela e scoraggiare le assunzioni, dall’altra il rischio di prolungare la finzione di un lavoratore “neutro” che non ha carichi di lavoro di cura sulle spalle, incitando le donne italiane che vogliono lavorare all’arte nazionale dell’arrangiarsi.

InGenere da tempo sostiene che il problema della cura dei figli deve trovare una soluzione in una maggiore condivisione tra uomo e donna, in maggiori e migliori servizi largamente accessibili, in una diversa organizzazione del lavoro che introduca flessibilità e attenzione al prodotto del lavoro e non alle ore passate nel luogo di lavoro (si vedano i vari articoli sui voucher, su esempi e pratiche di flessibilità "buona", su ruolo e valore degli asili nido). Lette in quest’ottica, le sei proposte, per molti aspetti condivisibili, sollevano domande su tre punti specifici.

1. La condivisione del lavoro di cura con i padri. Il gruppo M&P propone la possibilità di congedi facoltativi per i genitori al 60 per cento della retribuzione fino a 18 mesi cumulativi, a condizione che almeno 6 siano riservati ai padri. Si spera che i padri colgano questa opportunità, perché un desiderio di passare più tempo con i propri bambini si sta indubbiamente diffondendo tra gli uomini delle nuove generazioni, almeno tra quelli a livello più elevato di istruzione. Però dietro la possibilità di condivisione della cura dei figli non c’è solo un problema di cultura, ma anche di reddito. Se il reddito è basso, la rinuncia al 40 per cento di quello che nel 73 per cento dei casi è il reddito principale della famiglia è semplicemente insostenibile. Al 60 per cento della retribuzione, è probabile che il congedo parentale facoltativo continuerebbe ad essere preso prevalentemente dalle madri , come oggi accade nell’89 per cento dei casi (dati INPS relativi al 2011). Le storie di successo del congedo parentale fra i padri si ritrovano infatti laddove viene assicurato almeno il 75% della retribuzione, come in Islanda, Norvegia o Quebec (1).

 Diverso è il discorso del congedo obbligatorio per i padri, per il quale M&P propongono 10 giorni obbligatori all’80 per cento della retribuzione assecondando una richiesta da tempo avanzata dal movimento delle donne e solo simbolicamente accolta dalla legge Fornero di riforma del mercato del lavoro (art. 4 comma 24) che impone un giorno di congedo. Un congedo di un giorno è troppo poco, ma dietro la sua estensione c’è un problema di costo che non possiamo ignorare. Facendo un conto che non ha nessuna pretesa di precisione, e lasciando fuori dal calcolo i lavoratori autonomi, solamente 10 giorni pagati per il più di mezzo milione di lavoratori che ogni anno diventano padri, comporta una spesa che supera abbondantemente il mezzo miliardo; una spesa difficile da sostenere di questi tempi. Ma è bene continuare a battersi per questo obiettivo, sperando che con una politica di piccoli passi ci si possa avvicinare a congedi paterni più significativi, sui cui vantaggi non abbiamo dubbi, per madri, padri e bambini (si veda anche il nostro dossier sui congedi di paternità).

2. La lunghezza del congedo parentale. Indipendentemente dal fatto che i padri siano o meno disponibili, resta la proposta di M&P che la madre prenda un congedo parentale fino a 12 mesi con retribuzione al 60 per cento, cioè a condizioni due volte più generose delle attuali e soprattutto migliori per lavoratrici autonome e parasubordinate. Di fatto, si incentivano le donne a rimandare il rientro al lavoro - anche se non è questo l’obiettivo della proposta. Sappiamo che già ora le lavoratrici dipendenti usufruiscono del congedo parentale in misura elevata (difficile invece sarebbe per una lavoratrice autonoma abbandonare l’attività per un periodo così prolungato). Dobbiamo quindi tornarci ad interrogare sui possibili effetti di questa proposta su quantità e qualità dell’occupazione femminile. Dalle stime su 35 paesi Ocse riportate in ‘Closing the Gender Gap’  apprendiamo che negli ultimi quarant’anni (dal 1970 al 2010) estendere il congedo retribuito al di là delle 18 settimane ha ridotto lo scarto di genere nel tasso di occupazione, ma di poco, mentre ha peggiorato le disparità salariali (Ibidem: 209). Circa dieci anni fa la stessa Ocse pubblicava uno studio destinato a diventare autorevole che fissava in 6 mesi e non oltre la durata ottimale di un congedo. Non tutti sono convinti da questi risultati - come ci ha raccontato in quest'articolo Urzi Brancati - ma il fatto stesso che ci sia un dibattito sui possibili effettivi segnala che i rischi ci sono e non conviene sottovalutarli.

Un’assenza lunga è assorbibile da un sistema produttivo a piena occupazione e in perenne carenza di lavoro (come la Norvegia) o che relega le donne in posizioni secondarie oppure dominato da grandi imprese con centinaia di dipendenti facilmente intercambiabili. Ma cosa succede alla microimpresa con meno di dieci addetti (il 95 per cento delle imprese italiane) quando l’unica impiegata che conosce clientela e pratiche si assenta per tanto tempo? Se viene sostituita, che incentivo ha l’impresa a riprendere la vecchia dipendente che ha perso contatto con l’azienda? e che incentivo ha un’impresa a investire nelle donne se esiste questo rischio di abbandono che comporta costi di funzionamento tanto elevati?

In molti casi, aiuti per accedere a servizi di qualità pubblici o acquistabili sul mercato (con i voucher) e la flessibilità nell’organizzare i tempi e le modalità di lavoro possono essere preferibili all’assenza totale, sia per l’azienda, che non perde una risorsa già formata, sia per la lavoratrice, che non perde le competenze acquisite e il cammino già percorso nella progressione di carriera. Una recente legge inglese ha introdotto per le donne il “right to flexibility”, cioè il diritto a chiedere modalità diverse di lavoro che l’impresa può rifiutare ma solo dandone una giustificazione convincente. La flessibilità infatti non è solo il part-time , che dimezza lo stipendio e spesso in realtà è molto rigido, ma, per esempio, orari di entrata e uscita variabili, o un’articolata distribuzione delle ore di lavoro nell’arco della settimana. Con infinite cautele, queste modalità flessibili potrebbero essere estese anche ai cinque mesi di maternità obbligatori che già sembrano eccessivi ad alcune lavoratrici molto qualificate e/o che hanno raggiunto rapporti di totale condivisione paritaria con i propri partner. Per alcune di queste l’assenza obbligatoria può significare perdita di opportunità e preferirebbero spalmare su un arco temporale più lungo i giorni di congedo dopo il parto o le due ore giornaliere di riposo per l’allattamento totalmente a carico Inps (214 milioni di euro l’anno) che spesso sono incamerate dalle aziende. Insomma, come il Gruppo Maternità e Paternità riconosce, il mondo del lavoro è cambiato, in peggio in molti casi, ma anche in meglio in alcuni e il congedo obbligatorio “taglia unica” non va bene nel complesso e variegato mondo attuale del lavoro femminile.

3. il congedo universale di maternità. E’ la proposta più innovativa e che suscita maggiori reazioni. Questa volta il costo non è un problema, perché cinque mesi a 700 euro a tutte le madri possono addirittura comportare un risparmio per lo Stato o comunque nessun aggravio (la spesa totale resterebbe quasi inalterata grazie a risparmio sugli stipendi alti). Gli aspetti problematici sono due: la universalità, che cambia il significato dell’indennità di maternità, e l’importo dell’assegno uguale per tutte.

L'urgenza del problema è nel fatto che molte giovani donne vorrebbero mettere al mondo dei figli, ma non possono farlo per mancanza di un lavoro e/o di un reddito decente. Un progetto di vita che fino a pochi anni fa era dato per scontato è diventato irrealizzabile. E’ un problema che ha gravi ripercussioni sulla vita dei singoli e sul futuro della collettività e che giustamente è al centro dell’attuale dibattito politico. Ma non è un problema che si risolve con 700 euro per cinque mesi. E’ assai dubbio che questo provvedimento aumenterebbe il numero della madri, anche se in alcuni casi ne allevierebbe le difficoltà economiche.

L’universalità dell’assegno riconosce ai figli un carattere di bene pubblico. Le donne che partoriscono rendono anche un servizio alla collettività, garantendone il futuro, e quindi andrebbero compensate in quanto madri. E’ un cambiamento radicale di prospettiva. Lo scopo originale dell’indennità di maternità era quello di garantire il reddito abituale in un periodo della vita in cui non si può né lavorare né cercare lavoro, come ribadito da una sentenza della Corte Costituzionale (se ne parla in quest'articolo di Donata Gottardi). L’indennità è stata progressivamente estesa a tutte le madri che sono o sono recentemente state sul mercato del lavoro. Nel 2011, il 73 per cento delle madri (dipendenti, autonome e parasubordinate) ha avuto il diritto a un’indennità, anche se con deprecabili discriminazioni tra un contratto di lavoro e l’altro e con importi troppo bassi per alcune (2). E’ una percentuale molto alta che conferma il nesso ormai indissolubile tra lavoro e maternità. E le madri del rimanente 27 per cento? Tra queste probabilmente ci sono alcune forzate del lavoro nero e non poche rappresentanti del lavoro atipico, ad esempio le stagiste o le disoccupate che non hanno maturato i requisiti contributivi minimi perché sono entrate da poco sul mercato del lavoro. Ma c’è anche chi non paga i contributi perché evade il fisco. Ci sono quelle che sono fuori dal mercato del lavoro e non hanno nessuna intenzione di entrarci. Magari perché ricche di famiglia, magari perché hanno deciso di fare le madri a tempo pieno. In questi tempi di tagli con l’accetta a spese fondamentali, chi si sente di appoggiare un provvedimento universalistico di questo tipo senza vincoli di reddito? Ci ricordiamo del bonus bébé al figlio di Totti?

La proposta di M&P radicalizza la visione dei figli come bene pubblico sottovalutando la problematica commistione fra bene pubblico e bene privato che un figlio di fatto rappresenta in questa società. L’assegno uguale per tutte discende logicamente da questo cambiamento di prospettiva. Se una donna è pagata in quanto madre, non è diverso se a cambiare i pannolini c’è la manager o la commessa precaria a 500 euro al mese. A tutte la stessa somma. I risultati individuali, l’affermazione di sé che una donna è riuscita a realizzare si annullano e ciascuna è vista per cinque mesi soltanto e unicamente come una madre. Siamo sicure che tutte le donne sarebbero contente di questo risultato?

Adottando una prospettiva meno radicale, si può intendere universalizzazione come l’allargamento della platea delle beneficiarie a tutte coloro che abbiano una relazione significativa, seppur ‘atipica’ col mercato del lavoro. Si può anche pensare ad una integrazione al minimo dell’indennità attuale che non intacchi il principio della proporzionalità (al di sopra del minimo). Proposte di questo tipo non sarebbero a costo zero ma nemmeno comportano aggravi insostenibili. Ci ripromettiamo di tornarci sopra con qualche dettaglio e qualche numero in più.

Per ora ci preme ribadire che il diritto a fare i figli è legato al diritto a un reddito e un lavoro decente, diritti sanciti dalla Costituzione e che vorremmo vedere rispettati. I padri costituenti però, al 96 per cento uomini, erano anche convinti che le donne abbiano un’”essenziale” funzione famigliare (art. 37). Ecco, non siamo sicure che tutte le donne siano ancora entusiaste di questo articolo.

(1) Moss P. (a cura di) 2012, International Review of Leave Policies and Related Research 2012, University of Bristol: Bristol.

 (2) Nel documento di M&P viene presentato un dato diverso sulla percentuale delle donne non coperte da indennità di maternità (55% sotto i 30 anni, 40% sotto i 40). La differenza di dati deriva dal fatto che noi abbiamo considerato la percentuale delle madri che hanno avuto una qualche indennità. Mentre M&P considera tutte le donne in quella fascia di età e prende il complemento a 100 del tasso di occupazione. Grosso modo, rappresenta la percentuale di donne che se diventassero madri non avrebbero diritto a un'indennità.