Il nesso tra genere e forza appare spesso semplice e lineare. Sempre più urgente si fa la necessità di indagarlo, disinnescare pregiudizi culturali e profezie che si autoavverano. Un estratto da Un altro genere di forza di Alessandra Chiricosta, edito da Iacobelli

Un altro genere
di forza

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Foto: Illustrazione di Rita Petruccioli

Un corpo forte è naturalmente portato all’esercizio della violenza qualora non intervengano limiti esterni a inibirne questo tipo di espressione. Un corpo debole è naturalmente portato alla pace e alla mitezza. Un corpo forte è grezzo e bruto, un corpo debole è sensibile e ne.

Il consenso di cui gode tale paradigma è condiviso da molte e da molti, in modo trasversale a partizioni e posizionamenti. Rappresenta, a oggi, una base di partenza per riflessioni, analisi e soluzioni, condivisa in virtù della sua naturalità e oggettività. La differenza tra le posizioni si trova quasi sempre a valle di tale paradigma e apre di- battiti e conflitti che riguardano le strategie da utilizzare per la limitazione dell’esercizio della forza-violenza – se questa debba passare per il riconoscimento dello statuto di “vittima” di una donna o, al contrario, puntare su un rafforzamento del suo “potere”, per esempio – oppure, in contesti differenti, se tale asimmetria biologica vada semplicemente accettata, lasciando ai singoli e le singole il dovere di farsene carico a livello personale.

Il nesso che connette genere e forza appare dunque come lineare e semplice, evidente in riferimento a un destino biologico non diversamente configurabile. Allora quale la necessità di indagarlo ulteriormente?

La mia risposta, personale e dunque politica, è che la limpidezza delle affermazioni prima riportate sia ben più torbida di quanto si possa pensare, che siano i nostri occhi, abituati a vedere attraverso lenti deformanti, a non essere più in grado di osservare in quanti modi e a quanti livelli il nesso che articola la relazione tra forza e genere sia intricato, culturalmente determinato, basato su tautologie e profezie autorealizzantesi. Di come assuma la funzione di dispositivo di biopotere finalizzato ad articolare e confermare una gerarchia in base al genere e quindi sia uno degli elementi cardine delle ideologie patriarcali e sessiste.

Non solo: lo stretto legame che la forza, questo genere di forza, ha assunto nella costruzione del concetto e delle pratiche della virilità ha messo in ombra, fino a renderli quasi invisibili, altri percorsi, altre forme in cui la forza può essere concepita, espressa, farsi corpo. L’assolutizzazione di una delle possibili configurazioni del nesso genere-forza come elemento naturale ha bloccato altre esperienze e ignorato altre cornici teoriche in cui i due elementi interagiscono in modo differente, condizionando non solo la visione della relazione tra generi e forza, ma anche, in modo correlato, limitando fortemente l’esplorazione di come il concetto di forza possa essere altrimenti interpretato e incarnato.

Sono molti, moltissimi i dispositivi posti in atto per trasformare l’ideologia che assolutizza la forza di un unico genere in natura. Primo fra tutti proprio una definizione del tutto parziale di ciò che si definisce naturale e ciò che viene detto culturale e la netta cesura che separa i due termini. Pensati in una relazione oppositiva, di dominio, in cui, a seconda delle circostanze, si assegna maggiore valore all’uno o all’altro, i due concetti sono venuti a tracciare confini rigidi, categorie assolute che impediscono di pensare alle corpo-realtà antropiche come esito, sempre in divenire, di particolari configurazioni e pressioni disciplinanti in cui i due termini dell’apparente dicotomia interagiscono costantemente e si ridefiniscono reciprocamente.

L’opposizione natura/cultura si interseca con la dicotomia che stabilisce una divisione binaria dei generi, in cui comportamenti, attitudini, potenzialità vengono ascritti a un genere o a un altro sulla base della conformità alla propria natura, pensata, appunto come categoria assoluta e autoevidente. Definire cosa pertenga a una corpo-realtà in base alla propria sessuazione e cosa no, con l’eccezione di pochissimi aspetti, è già dispositivo biopolitico, che imprigiona i corpi in binari predefiniti e raramente indagati ulteriormente, un mythos che si fa corpi disciplinati e impediti a sperimentare altre possibilità di espressione di sé.

In particolare, per quanto riguarda il percorso che ho articolato in questo libro, la definizione di forza, intesa come forza combattente e attribuita a un corpo antropomorfo, si intreccia indissolubilmente a quella di virilità, lasciando, in una prospettiva che non ammette spazi terzi, pochi margini per pensare e, soprattutto, sperimentare quali potenzialità corpi che non rispondono alle caratteristiche di forza declinate dalla virilità possano esprimere. Se la forza caratterizza la virilità – e la forza è sempre interpretata come soggiogante, cieca, aggressiva, destinata a trasformarsi in violenza se non controllata dalla cultura – la natura femminile dovrà porsi al di fuori di questo ordine, mostrandosi come propensione alla cura e alla disponibilità.

Il ragionamento che si consente in questo scenario è uno solo: la forza definisce un genere, ergo di forza può essercene di un solo genere. Questo doppio vincolo ha sigillato una relazione potenzialmente fluida in un diktat che ha di fatto precluso la possibilità di porre la questione in altri termini, di aprirsi ad altre domande: c’è solo un genere di forza oppure ce n’è anche un altro, oppure molti? La forza è dicibile e incarnabile solo in queste modalità? È possibile articolare altri discorsi sulla forza, concepirla in altro modo, vederla agire in altri corpi e sotto altre forme?

La mia riflessione sulla forza combattente di altro genere, nel duplice senso in cui il concetto può essere interpretato, si è articolata in un lunghissimo percorso, dipanatosi in moto spiraliforme nel tempo e nello spazio, e ha coinvolto ogni fibra del mio tessuto carnale e mentale, modificandolo, o meglio, rendendolo cosciente della continua trasformazione che lo costituisce. Nasce dall’esperienza concreta di molti anni dediti alla pratica di arti marziali dell’Asia orientale e del Sudest asiatico, della vita trascorsa in quei Paesi e dello studio delle società, culture, lingue e filosofie locali. Un’esperienza che si è intrecciata con la ricerca filosofica, antropologica e di genere condotta seguendo approcci più in linea con la nostra tradizione scientifica. Un dialogo interculturale che ha avuto luogo all’interno della mia epidermide: ho cercato di sintetizzarne alcuni aspetti nelle pagine di questo libro.

Estratto dall’introduzione al volume di Alessandra Chiricosta, Un altro genere di forza, Iacobelli, 2019. Per gentile concessione dell’autrice e dell’editore