Linguaggi

Non è solo una questione di carriera. Stereotipi e schemi di comportamento rischiano di compromettere la qualità della ricerca e le sue modalità. Come disinnescare i più diffusi pregiudizi quando anche le donne credono di essere più fortunate che brave?

L'accademia ha bisogno
di ricercatrici spregiudicate

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Foto: Unsplash/ Timothy Paul Smith

La parità di genere è un valore in sé che dovrebbe essere perseguito a prescindere dai vantaggi che l’istituzione ne può trarre. Ciò non toglie che possa essere interessante chiedersi quali conseguenze la resistenza del potere maschile nel mondo accademico abbia per la produzione stessa della ricerca. 

La presenza delle donne nei team di ricerca crea un clima più collaborativo e dinamiche capaci di stimolare una maggiore creatività e intelligenza collettiva, talvolta con esiti significativi in termini di innovazione e nuove scoperte[1]. Questo accade perché le donne, in virtù della loro diversa socializzazione, hanno un diverso stile interpersonale: mostrano una maggiore attenzione all’altro, sono più capaci di leggerne il linguaggio non verbale e di arrivare ad inferenze più accurate sullo stato d’animo e sul pensiero dell’altro con cui si relazionano[2]. Le donne sono, in genere, più rispettose dei turni per prendere la parola, tendono a muoversi in direzione di una maggiore parità partecipativa, si interessano di argomenti di ricerca altrimenti considerati marginali, dai quali proviene il beneficio di uno sguardo inedito sulla realtà [3]. 

Perché gli effetti positivi della presenza femminile nei gruppi di ricerca si facciano sentire, tuttavia, alcune condizioni particolari devono sussistere: non funzionano né in squadre di sole donne né di soli uomini; non si riscontrano effetti positivi neppure in quei gruppi di lavoro nei quali le donne sono una piccola minoranza. Perché costituiscano una massa critica le donne devono arrivare ad essere almeno tra il 15% e il 30% dei membri del gruppo; la struttura organizzativa della squadra di ricerca inoltre deve preferibilmente essere di natura non gerarchica e caratterizzata da un alto livello di comunicazione.

Questi dati dovrebbero condurci a una prima importante riflessione: reclutare le donne nel mondo accademico è importante per i risultati che la ricerca scientifica può raggiungere, ma non è abbastanza. Se non si vogliono ignorare le opportunità che dal loro contributo possono derivare alla ricerca, bisogna creare anche il giusto clima organizzativo e vincere una serie di pregiudizi che condizionano la valutazione delle donne nel lavoro di gruppo. Quali sono i pregiudizi da combattere e cosa intendo per giusto clima organizzativo? 

Per capire più a fondo le dinamiche che condizionano quotidianamente la vita delle donne nel mondo del lavoro e la valutazione del loro contributo, Jean C. Williams, professoressa di diritto presso lo Hastings College of Law, Università della California, dopo essersi occupata a lungo della tematica della conciliazione vita-lavoro, ha deciso di spostare la sua ricerca sui pattern tipici dei pregiudizi che condizionano la valutazione delle donne nelle loro performance. In What works for women at work: four patterns working women need to know (2014), sulla base di 127 interviste in profondità somministrate a donne che occupano importanti posizioni lavorative, Williams e la figlia, Rachel Dempsey, individuano i seguenti quattro schemi di comportamento:

  • Prova di nuovo (try it again)
  • Sul filo del rasoio (tightrope)
  • Ruolo materno (maternal role)
  • Tiro alla fune (tug of war)

Prova di nuovo. Mentre gli uomini vengono considerati soprattutto per il loro potenziale, le donne vengono considerate in base ai loro successi. Il successo di una donna – spesso dalle donne stesse - d’altra parte, viene attribuito più alla fortuna che alle sue competenze ("lui è dotato, lei è fortunata"). I suoi errori invece sono ricordati più facilmente di quelli di un uomo.

Sul filo del rasoio. Le donne in posizioni decisionali si trovano spesso di fronte a una sorta di impasse: essere maschili, e riuscire a gestire il potere, ma essere invise; oppure mantenere atteggiamenti femminili, magari essere amate, ma non essere rispettate.  

Ruolo materno. Una donna può essere una buona madre solo se sacrifica il successo nel lavoro o non dedica tutta se stessa alla carriera. È  difficile quindi essere prese sul serio in ambito lavorativo se si è anche madri. 

Tiro alla fune. Le donne usano diverse strategie per aggirare i tre pregiudizi appena analizzati. Ciò fa sì che spesso non si intendano tra loro  e finiscano per entrare in conflitto, per farsi guerra, invece di cercare di superare gli stereotipi.

Questi pregiudizi possono essere sconfitti solo cambiando radicalmente l’organizzazione, ma – secondo Williams e Dempsey – può essere intanto importante utilizzare strategie volte ad attenuare gli effetti derivanti dagli schemi di comportamento legati al genere (gender bias patterns). Per sconfiggere quello che è spesso diventa persino un auto-convincimento delle donne stesse, ovvero l’idea di essere state più fortunate che brave, può essere utile avere il sostegno di tre quattro persone, dalle quali ricevere un rinforzo positivo sul proprio valore nel gruppo e al di fuori del gruppo (la cosiddetta posse strategy, che in molte università, soprattutto nel mondo anglosassone, si è tradotta nella promozione di una strategia di mentoring e networking tra donne). Per superare il pregiudizio del "filo del rasoio", potrebbe risultare vincente avere un atteggiamento assertivo e affermativo (come parlare guardando il proprio interlocutore diritto negli occhi) anche quando si svolgono attività tradizionalmente considerate femminili; ma anche dire dei "no" strategici quando ci viene chiesto di svolgere l’ennesimo incarico di organizational housework, sottolineando l’importanza del lavoro che si sta già svolgendo per l’organizzazione e suggerendo il nome di un uomo per l’altro, altrettanto essenziale, incarico.  

Ma che cosa si intende per lavoro "domestico" organizzativo? Se prendiamo in considerazione un’organizzazione complessa come quella del mondo accademico, è chiaro che esiste al suo interno una gerarchia tra attività di natura molto diversa. Alcuni compiti, quali il lavoro di ricerca, le pubblicazioni, l'internazionalizzazione, hanno un alto rendimento in termini di riconoscimento e carriera. Accanto ad essi, si dà tuttavia anche tutto un insieme di attività, considerate di supporto e sostegno – di "cura" o "riproduzione sociale" –, che godono di minore prestigio e riconoscimento, ma senza le quali l’università non potrebbe assolvere una parte importantissima dei suoi compiti istituzionali più ordinari e quotidiani – per esempio, la didattica, il tutoraggio e il lavoro amministrativo per la gestione dei corsi di laurea. 

La distinzione gerarchica tra questi due tipi di attività si è andata accentuando con l’avvento dell’università neoliberale, anche per effetto dei tagli alla spesa pubblica che hanno impedito il turn over e accentuato, da un lato, il carico del lavoro accademico e, dall’altro, la sua precarizzazione. Tutto ciò ha finito per riflettersi inevitabilmente negli usi del tempo. Il "capitale accademico" di cui oggi si ha maggiore bisogno all’interno dell’università è dato dal controllo dell’uso del tempo: il tempo, insieme ai fondi di ricerca, è la risorsa più scarsa tra gli accademici[4].  

Spinte dalle aspettative sociali, dal fatto di trovarsi più numerose nelle posizioni basse della gerarchia accademica o in posizioni precarie, nonché, non di rado, da una forma di rigetto della logica maschile della competizione accademica, le donne si trovano più coinvolte degli uomini nel lavoro "domestico" istituzionale con effetti che inevitabilmente vanno a perpetuare la resistenza del cosiddetto "soffitto di cristallo" e l’effetto della conduttura che perde (leaky pipeline)[5]. In altri termini, nell’università si ripropone una divisione degli usi del tempo legata a una costruzione tradizionale dei generi maschile e femminile, che per molti versi rispecchia i criteri tradizionali della divisione tra lavoro nella sfera domestica e lavoro nella sfera pubblica. 

Alla fine degli anni Settanta, parlando della "doppia presenza" delle donne, divise tra pubblico e privato, Laura Balbo sottolineava come da quella posizione di svantaggio femminile, legata a uno stare tra mondi diversi, tra spazi funzionanti secondo logiche diverse, ci si potesse aspettare l’emergere di forme di resistenza e di elementi innovativi. Si potrebbe leggere in questi termini il protagonismo delle donne nel movimento delle cosiddette slow academy e slow science.

Quali frutti possono nascere da un lavoro intellettuale che non conosca i tempi lenti per la maturazione delle idee, per lo studio e la riflessione, che non possa essere generoso e appassionato, perché ossessionato dalla necessità di dimostrare il proprio impatto in termini quantitativi? Visto in questi termini, il problema delle donne nell’accademia non è evidentemente solo una questione di carriera.

Note

[1] Si vedano i lavori di Bear e Woolley (2011).

[2] Ci riferiamo qui alle ricerche di Wooley, Chabris, Petland, Hashmi, Malone (2010).

[3] Come mostrano i lavori di Nielsen, Alegria, Börjeson, Etzkowitz, Falk-Krzesinski, Joshi, Leahey, Smith-Doerr, Woolley, Schiebinger, (2017). 

[4] Cfr. Heijstra, Steinthorsdottir e Einarsdottir, 2016.

[5] Una metafora usata per descrivere il fatto che "goccia a goccia" le donne si perdono lungo i percorsi della carriera scientifica: numerose nei gradini più bassi della scala gerarchica, in poche arrivano a quelli più alti.

Riferimenti

Balbo L., La doppia presenza, “Inchiesta”, 32, pp. 3-6, 1978

Bear J. B. e Woolley A. W., The Role of Gender in Team Collaboration and Performance, “Interdisciplinary Science Reviews”, 36, 2, pp. 146–53, 2011

Berg M. e Seeber B.K., The Slow Professor: Challenging the Culture of Speed in the Academy, University of Toronto press, 2016

Heijstra T. M., Steinthorsdottir and Einarsdottir T., Academic career making and the double-edged role of academic housework, “Gender and Education”, pp. 1-17, 2016

Nielsen M. W., Alegria S., Börjeson L., Etzkowitz H., Falk-Krzesinski H. J., Joshi A., Erin Leahey E., Smith-Doerr L., Woolley A. W., Schiebinger L., Opinion: Gender diversity leads to better science, “Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America”, 114, 8, pp. 1740–1742, 2017

Savigny H., Women, Know your Limits: Cultural Sexism in Academia, “Gender and Education”, 26, 7, pp. 794-804, 2014

Williams J. C., R. Dempsey, What Works for Women at Work: Four Patterns Working Women Need to Know, New York University Press, New York, 2014

Wooley A. W, Chabris C. F., Petland A., Hashmi N., Malone T., Evidence for a Collective Intelligence Factor in the Performance of Human Groups, “Science”, 330, 6004, pp. 686-688, 2010

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