Tutti parlano della libertà delle donne, ma quando si parla di allattamento le donne non si sentono ancora libere di scegliere. Una riflessione personale e politica
Di allattamento si parla pochissimo. Non se ne parla affatto nel dibattito pubblico, come accade per molti dei temi che riguardano le donne, ma quello che stupisce è che se ne parla molto poco anche negli ambienti e tra soggetti che si occupano di questioni di genere. Probabilmente perché questo argomento coinvolge aspetti sensibili che sono ancora dei tabù e perché alcuni suoi aspetti problematici non hanno soluzioni semplici. Il rapporto del femminismo con la questione dell’allattamento al seno è stato a lungo conflittuale: per aprire ed esplorare questo discorso non basterebbe un libro, men che meno un articolo. Questo tema ha spesso pagato un atteggiamento di “benaltrismo”: con tutti i problemi che hanno le donne, con tutte le ingiustizie che subiscono, con tutte le emergenze che è necessario affrontare, il sostegno pubblico alle madri che vogliono allattare al seno non è una priorità. Tuttavia, se ciò che ci sta a cuore è la libertà delle donne di decidere e agire secondo i propri desideri e aspirazioni, non si spiega perché non si dovrebbe sostenere tutte insieme anche questa battaglia, insieme alle altre. Vale la pena evidenziare, infatti, che far sì che chi decide di allattare al seno abbia gli strumenti e l’aiuto concreto per farlo non comporta in alcun modo la demonizzazione di chi decide di nutrire il proprio figlio con il latte artificiale. Sono scelte, entrambe; scelte portate avanti da donne che andrebbero tutte difese e supportate con la medesima convinzione.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità, il Ministero della Salute, la European Food Safety Authority, tra le altre istituzioni internazionali, raccomandano l’allattamento al seno esclusivo fino ai sei mesi di vita del bambino e consigliano il suo proseguimento, ovviamente in via complementare, fino ai due anni. In Italia, però, non esistono politiche che lo favoriscano in alcun modo, nel concreto.
Che cosa significa progettare e implementare politiche che supportino realmente l’allattamento al seno? Le aree di intervento sono almeno tre.
Prima di tutto, gli ospedali. Quanti degli ospedali italiani offrono il servizio di rooming-in e hanno personale medico e para-medico formato e aggiornato in materia di allattamento al seno? Un’informazione difficile da reperire. Secondo il portale Dove e Come mi curo si contano 226 strutture in tutto il territorio nazionale. Il rooming-in, così come la prassi di attaccare il bambino al seno della mamma il prima possibile, già in sala parto o al massimo in sala risveglio, è fondamentale per il corretto avvio dell’allattamento. Vale la pena sottolineare che si tratta di uno strumento molto utile per la neo-mamma anche in un senso più ampio: se organizzato correttamente, permette di stare, da subito, sempre insieme al proprio bambino ma con la struttura della nursery a disposizione e con gli infermieri che spiegano come approcciarsi al nuovo nato, insegnano le cose più pratiche e forniscono assistenza rispetto ai mille dubbi e domande che è normale avere in questa fase. L’Onu e l’Unicef inseriscono il rooming in tra i 10 step per un allattamento efficace, contenuti nella versione rivista della Baby-friendly Hospital Initiative (BFHI).
In secondo luogo, la gestione del periodo post-parto. Una volta uscita dall’ospedale, una neo-mamma è lasciata completamente sola. I problemi con l’allattamento possono essere i più disparati: dalle ragadi agli ingorghi, dalle mastiti alla difficoltà del bambino ad attaccarsi. Serve una figura professionale di riferimento e, in Italia, non c’è. Non dimentichiamo, poi, che spesso le nuove famiglie nascono lontane dalle famiglie di appartenenza: questo significa, per la donna, affrontare la maternità senza il supporto della propria famiglia di origine, da una parte, e, dall’altra, senza il proprio compagno, dato che in Italia non esiste una politica strutturale in materia di congedo di paternità. Per non parlare delle difficoltà che incontrano le famiglie omogenitoriali. Un proverbio africano dice che “per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio”: cambiano latitudini ed epoche storiche ma questa rimane una grande verità, che la società ha pian piano negato scaricando sempre più tutto il peso della cura di una nuova vita sulla sola madre.
Considerando la promozione che le istituzioni pubbliche fanno dell’allattamento al seno, sarebbe opportuno che siano queste ultime a preoccuparsi di sostenere le madri attivamente e non le madri a cercare aiuto, rendendo l’allattamento una vera corsa a ostacoli. Esempi positivi che dimostrano la possibilità di realizzare un modello diverso esistono e non lontano da noi: in Belgio, ad esempio, la “mutualité”, la cassa mutua obbligatoria, copre dieci visite di un’ostetrica a domicilio, per aiutare con l’allattamento o qualsiasi altro problema o insicurezza la mamma dovesse attraversare e anche in Olanda è presente una politica simile.
Si potrebbe pensare che i pediatri possano essere figure di aiuto, invece purtroppo non accade sempre. Trovare un pediatra di base esperto di allattamento non è così comune, probabilmente perché con le liste di pazienti infinite che si ritrovano a dover gestire, diventa difficile trovare il tempo da dedicare all’aggiornamento su questo tema o, più semplicemente, a seguire passo passo ogni singola mamma. Per questo, può succedere che contribuiscano a peggiorare una situazione già problematica o creino problemi dove, invece, non ve n’erano.
Terzo punto: il ritorno al lavoro. Il congedo di maternità obbligatorio italiano è uno dei più “generosi” di tutta Europa. Tuttavia, si conclude comunque al terzo o al quarto mese di vita del bambino e non ci si può nascondere che, per poter proseguire l’allattamento al seno esclusivo fino al sesto mese, il ritorno al lavoro costituisce un ostacolo rilevante. È un tema delicato perché la risposta non può essere l’allungamento del congedo di maternità, che rappresenterebbe un ulteriore fattore di scollamento tra le donne e il mercato del lavoro. È pur vero che allattare e tornare a lavoro si può, con una buona dose di sacrificio e determinazione, come spiega Tiziana Catanzani nel suo libro. Se Oms e Ministero della Salute, tuttavia, raccomandano caldamente l’allattamento esclusivo fino ai sei mesi, perché devono essere le donne a ingegnarsi con tiralatte e infinita buona volontà, con tutti i problemi spesso conseguenti (diminuzione della produzione del latte, difficoltà a estrarre il latte, lo stress che ne deriva), completamente sole e senza alcun tipo di sostegno da parte del pubblico?
Questa domanda, in realtà, va posta a un livello più ampio e riguarda tutte e tre le criticità appena presentate: nonostante l’oramai accertata rilevanza pubblica dell’allattamento al seno (dati i benefici sulla salute dei bambini e delle mamme e, quindi, se non altro, la minore incidenza sul presente e sul futuro delle casse dello Stato), questo continua a essere trattato come un fatto privato e, dunque, invisibile dal punto di vista delle politiche pubbliche (molto dice, in questo senso, anche il fatto che i dati ISTAT su questo tema siano fermi al 2013).
Privata è la scelta che una donna fa, ma il ruolo del pubblico esiste, e dovrebbe consistere nel rendere più facile e agevole il percorso di ognuna.
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