Di recente la Cassazione ha deciso di svincolare l'assegno di divorzio dal tenore di vita della famiglia. Che succede nei casi di violenza domestica
La recente decisione della Cassazione sull’assegno di divorzio ha suscitato grande scalpore e discussioni, sia sui media che nel mondo giuridico. Meno discusso, finora, è stato il suo potenziale impatto nel contesto della violenza domestica. La sentenza ha “sganciato” l’assegno – che il tribunale decide di destinare in sede di divorzio a favore del coniuge economicamente più debole – dal tenore di vita goduto dalla famiglia, stabilendo che sia calcolato sulla base dei redditi e della situazione patrimoniale del coniuge che lo richiede. Poiché nella grande maggioranza dei casi il coniuge economicamente più debole è la donna, si tratta di una decisione molto importante e delicata per la percezione e la concezione della parità di genere della nostra società.
Storia e natura dell’assegno di divorzio
Facciamo un passo indietro, alla nascita del regime attuale del divorzio. Con la separazione, il matrimonio quale rapporto giuridico resta valido, tant’è che a seguito del procedimento separativo i coniugi restano marito e moglie e sul certificato anagrafico resta la dizione coniugata/o. Solo con il divorzio il vincolo si scioglie e si ritorna a essere nubili o celibi.
In ragione di ciò, la natura e le modalità di attribuzione dell’assegno al coniuge più debole economicamente variano a seconda che venga disposto nell’ambito di una separazione o di un divorzio.
Nel primo caso l’assegno viene sempre e comunque disposto dal giudice a favore del coniuge più debole economicamente, sulla sola base della differenza reddituale tra i coniugi[1]. Nel secondo caso, l’assegno viene determinato sulla base di una serie di parametri, dettati dall’art.5 della legge sul divorzio, qualora l’ex coniuge richiedente non abbia mezzi adeguati e non possa procurarseli per ragioni obiettive. Quindi se il richiedente l’assegno divorzile possiede “mezzi adeguati” o è effettivamente in grado di procurarseli, il diritto al contributo economico deve essere negato.
Finora, con fondamentali sentenze della Corte di Cassazione[2], il parametro di riferimento – al quale rapportare l’adeguatezza o inadeguatezza dei “mezzi” del richiedente – è stato costantemente individuato nel tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, o che si poteva legittimamente e ragionevolmente fondare su aspettative maturate nel corso del matrimonio stesso.
Dopo circa 27 anni di costante giurisprudenza nel senso suindicato, con la sentenza dello scorso maggio la Corte di Cassazione ha abolito il riferimento al “tenore di vita” quale parametro di riferimento per la determinazione dell’assegno di divorzio, sull’inequivoco principio dell’ “autoresponsabilità economica degli ex coniugi” dopo la pronuncia di divorzio.
La sentenza in esame richiama espressamente nel corpo della motivazione un'importante sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite secondo cui “lo scopo di evitare rendite parassitarie e ingiustificate proiezioni patrimoniali di un rapporto personale sciolto può essere raggiunto utilizzando in maniera prudente, in una visione ponderata e globale, tutti i criteri di quantificazione sopra descritti, che sono idonei a evitare siffatte rendite ingiustificate, nonché a responsabilizzare il coniuge che pretende l’assegno, imponendogli di attivarsi per realizzare la propria personalità, nella nuova autonomia di vita, alla stregua di un criterio di dignità sociale”[3].
Quindi, la Corte – con la sentenza del maggio 2017 – ribadisce che il venir meno del rapporto matrimoniale comporta necessariamente anche la cessazione della sua dimensione economica-patrimoniale: l’ultrattività dell’impegno a “mantenere” l’ex coniuge violerebbe lo scopo di porre fine a ciascun vincolo giuridico tra gli ex coniugi.
Sempre secondo la recentissima sentenza della Suprema Corte – che, ripetiamo, richiama e fa proprio il pensiero espresso dalle Sezioni Unite nel 1990 – è significativa una valutazione sul contenuto morale e sociale del matrimonio, inizialmente inteso, sotto la sua concezione patrimonialistica, come “sistemazione definitiva”, concezione che si è attenuata negli anni, essendo ormai condiviso nel costume sociale il significato di matrimonio come atto di libertà e di autoresponsabilità, nonché come luogo degli affetti e di effettiva comunione di vita, e in quanto tale dissolubile.
Questi principi a contenuto fortemente sociale hanno un impatto devastante per le donne che subiscono violenza, le quali – lungi dal considerare il matrimonio sotto una luce “patrimonialistica” – hanno sacrificato la loro vita schiacciate dall’esercizio di un potere maschile che ha tolto loro ogni autonomia, a partire da quella lavorativa ed economica.
Sarebbe oltremodo ingiusto, oltre che eticamente inaccettabile, se queste donne in sede di divorzio non si vedessero attribuire un congruo assegno ma una somma – determinata sul principio dell’autorepsonsabilità – a malapena sufficiente per fare la spesa e pagare qualche bolletta.
Al di là di tali enunciazioni – puramente teoriche e solo in questa prospettiva condivisibili – è auspicabile che la citata sentenza della Corte di Cassazione di maggio resti una soluzione che venga richiamata dalla Giurisprudenza a venire con molta cautela, operando un distinguo da nucleo familiare a nucleo familiare, nel rispetto della vita delle donne.
Il padrone violento
In particolare, bisognerà prestare massima attenzione all’applicazione del nuovo principio giurisprudenziale nei casi di violenza domestica.
La condotta dell’uomo violento crea nelle relazioni intime una sorta di modello familiare che purtroppo si ripete con una certa continuità: la donna vittima di violenza viene relegata a un ruolo di madre e di moglie senza alcuna possibilità di inserimento sociale e lavorativo. Nei casi in cui la donna lavora, il marito o il partner violento pone in campo tutta una serie di dissuasioni – più o meno invasive e maltrattanti – al fine di “convincerla” a smettere di lavorare per poterle togliere qualsiasi tipo di autonomia e renderla così del tutto sottomessa alla propria volontà.
Purtroppo è questo il modello che si ripete con maggiore frequenza: uno dei primi indicatori di violenza è proprio il controllo economico della donna, alla quale durante il matrimonio viene impedita qualsiasi forma di autoresponsabilità, principio a cui, con tanto vigore, fa riferimento la giurisprudenza.
Sulla base di tale sconsolante contesto familiare, sarebbe oltremodo oltraggioso se, in sede di divorzio, dopo che la donna ha finalmente trovato il coraggio di affrontare la tanto desiderata eppure invalicabile – per via delle minacce e delle intimidazioni subite – soglia della separazione, il Giudice applicasse tout court il principio giurisprudenziale sopra accennato.
Si arriverebbe all’assurdo di una moglie – vittima di violenza, maltrattamenti e soprusi a opera del partner che l’ha estromessa dal mondo lavorativo e da qualsiasi ipotesi di realizzazione economica – priva di alcun sostanziale sostegno economico in sede di divorzio.
E infatti, sempre secondo il nuovo orientamento della Cassazione, ammesso che una donna abbia diritto a percepire l’assegno divorzile, il quantum di detto assegno verrà determinato non già rispetto al tenore di vita, ma solo in considerazione dei redditi e della capacità di lavoro personale, in relazione alla salute, all’età, al sesso e al lavoro dipendente o autonomo. Nel concreto, se una donna – ad esempio un’impiegata – per esclusiva volontà del marito ha lasciato il lavoro e si è dedicata ai figli, a 40 anni potrebbe essere considerata ancora in età da lavoro, ma di fatto è sicuramente una persona fuori da concrete ipotesi di assunzione, fermo restando la valutazione sul suo stato di salute dopo anni di percosse.
La pericolosa deriva della decisione in esame ci è fornita da una recentissima ordinanza che seguendo quanto deciso dalla Suprema Corte ha affermato che “ai fini della valutazione di autosufficienza del richiedente l’assegno divorzile, una persona è indipendente economicamente quando è adulta e sana e può provvedere al proprio sostentamento, ossia disporre di risorse sufficienti per le spese essenziali quali il vitto e l’alloggio, ed esercitare i propri diritti fondamentali. Un parametro – sebbene non esclusivo – di riferimento può essere rappresentato dall’ammontare delle entrate che consente a un individuo di accedere al patrocinio a spese dello Stato, oggi pari a euro 11.528,41 annui, ossia circa 1.000,00 euro mensili”[4].
Decisione inaccettabile, sul piano di fatto. Ci chiediamo come ci si possa rapportare a una somma di 1000 euro per affermare l’autonomia economica di una persona, che pertanto, resterebbe senza assegno divorzile: e se dovesse pagare un affitto ad esempio pari a 600 euro restando con 400 euro mensili, farà una vita dignitosa?
Queste recenti decisioni non rispettano il minimo di dignità che deve essere assicurato a ogni donna.
Il giudice – quindi – non dovrebbe prescindere da una valutazione caso per caso, e dalla condizione della donna in contesti di violenza, prima di fare riferimento e applicare principi di autoresponsabilità e di autonomia economica.
Il richiamo all’evoluzione concreta dei ruoli familiari e di genere, fatto nella sentenza, è condivisibile ma a maggior ragione andrà calato, nelle valutazioni dei giudici, nel contesto reale al quale si fa riferimento. Allo stesso modo, bisogna sgombrare il campo da alcuni fraintendimenti e luoghi comuni che hanno accompagnato la discussione sulla sentenza.
Le donne non vogliono quella che volgarmente viene definita “una rendita a vita” dall’ex marito. Un’interpretazione delle norme sull’assegno divorzile che abbiano l’effetto di procrastinare a tempo indeterminato il momento della recisione degli effetti economico-patrimoniali del vincolo coniugale può tradursi in un ostacolo alla realizzazione di un diritto fondamentale dell’individuo[5], che è ricompreso tra quelli riconosciuti dalla Cedu e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, e non è questo ciò che le donne vogliono.
Sappiamo tutti, purtroppo, che l’Italia è uno dei paesi più arretrati per ciò che concerne lo stato sociale, dove la mancanza di un welfare forte e soddisfacente rende ancora più improbabile la realizzazione delle donne in generale, anche in mancanza di violenza domestica: la donna è ancora, nonostante i grandi progressi che è riuscita a compiere negli anni, l’anello debole della famiglia, colei che è deputata a rinunce lavorative e professionali per dedicarsi ai compiti di cura della casa e dei figli, per consentire al marito di fare carriera. Questa condizione sociale e familiare non può essere ignorata dai giudici, nel momento in cui decidono se disporre – e in che misura – l’assegno di divorzio in favore dell’ex moglie.
Tali ultime considerazioni sono ancora più vive e presenti nel sud Italia, territorio deputato a maggiori difficoltà, sia per la presenza di condizioni malavitose e culturali che impediscono maggiormente la crescita e l’indipendenza delle donne all’interno delle relazioni familiari, sia per una condizione di minore sviluppo economico di quei territori.
Sicuramente questa sentenza è uno stimolo per le donne a cercare sempre più una loro indipendenza che non sia solo economica ma anche innanzitutto culturale. Sapere che è giusto e doveroso per se stesse e per i propri figli non sottostare mai ad alcuna minaccia o violenza che abbia il fine di annientarle. Con i loro valori e con la loro interiorità, le donne vanno difese e sostenute, perché facciano sempre più strada nella nostra società.
Note
[1] Si veda tra tutte la sentenza della Cassazione n.12196 del 16 maggio 2017
[2] Si veda tra tutte la sentenza della Cassazione n.11870 del 9 giugno 2015
[3] Si veda la sentenza della Cassazione a Sezioni Unite n. 11490 del 29 novembre 1990
[4] Tribunale di Milano, sez. IX civile, 22 maggio 2017
[5] Si veda la sentenza della Cassazione n.6289 del 19 marzo 2014
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