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C'è una correlazione statistica tra religione, cattolica e ortodossa, e scarso tasso di occupazione femminile. Un spunto di riflessione su quanto i valori religiosi influenzano le scelte delle donne e le loro possibilità di affermarsi lavorativamente

Donne e religione
ora et non labora

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In tutti i paesi dell’UE27 esiste un gap tra i tassi di occupazione femminile e maschile nel triennio 2008-2010, con la sola eccezione di Lettonia e Lituania che presentano nel 2010 dei tassi di occupazione analoghi per uomini e donne. Il rapporto calcolato utilizzando dati Eurostat è pari all’83% in media nei paesi UE27 nel 2010. Vi è inoltre un gruppo di paesi del mediterraneo dove la differenza tra i due tassi è molto più alta, toccando il 48% per Malta e il 32% circa per l’Italia e la Grecia. Non a caso, in queste tre nazioni i tassi di occupazione femminili sono più bassi. Tredici nazioni su ventisette presentano un’occupazione femminile più bassa rispetto a quella maschile tra i dieci ed i 20 punti percentuali, mentre soltanto in Danimarca, Finlandia e Svezia il rapporto oscilla tra il 90% ed il 98,5%.

Se si considera l’andamento nel tempo del rapporto tra i due tassi, tra il 2008 e il 2010 si è registrato un aumento medio nell’UE27 di 1,8 punti. Tuttavia soltanto quattro nazioni, Estonia, Lettonia, Lituania ed Irlanda hanno registrato incrementi compresi tra 7,3 e 11,2 punti, mentre per gli altri paesi il rapporto è aumentato fino ad un massimo di 3,5 punti.

La figura 1 mette a confronto i tassi di partecipazione femminile nel 2008 con quelli di appartenenza alle denominazioni cattolica e ortodossa (nel caso di Romania, Bulgaria, Cipro, Estonia e Grecia), così come risultano dalle domande poste nell’European values survey.

Figura 1: Partecipazione femminile al mercato del lavoro e quota di cattolici e ortodossi nel 2008

 Nota: Nel caso di Romania, Bulgaria, Cipro, Grecia ed Estonia, si considera la percentuale di ortodossi.

Fonte: nostra elaborazione su dati Eurostat (partecipazione) e European Value Survey (appartenenza religiosa). 


Dalla figura 1 emerge come in paesi con più elevata presenza cattolico ortodossa vi sia una minore partecipazione delle donne al mercato del lavoro. In questo gruppo di nazioni rientrano l’Italia, la Grecia, la Polonia, la Romania e l’Ungheria. Al contrario in paesi con quote di cattolici inferiori al 40%, i tassi di partecipazione femminile raggiungono valori compresi tra il 65% ed il 75% circa (Danimarca, Regno Unito, Finlandia e Svezia).

Va osservato che la religione rappresenta solo uno dei numerosi fattori che influenzano la partecipazione femminile al mercato del lavoro, e per tale ragione non può essere esaustiva un’analisi descrittiva, in specie se non di tipo multivariato. Elevati tassi di partecipazione femminile nei paesi del Nord-Europa cattolici, come l’Austria ad esempio, sono dovuti a tradizioni diverse di welfare state che si traducono in politiche che favoriscono la partecipazione femminile al mercato del lavoro. Si pensi inoltre al fatto che in molti paesi il lavoro dà accesso ad una serie di diritti che altrimenti si perdono, come quelli assistenziali e sanitari.

Tuttavia, la relazione negativa è così forte che sorge spontaneo chiedersi quanto l’associazione statistica riveli della possibile esistenza di un nesso di causalità fra i due fenomeni della partecipazione femminile al mercato del lavoro e dell’appartenenza ad una confessione religiosa anziché ad un’altra. Infatti, la letteratura non solo economica si sta di recente interrogando sull’argomento.

Ci si è chiesti in particolare se accanto ai fattori di policy, le specificità culturali e religiose di una nazione sono in grado di spiegare non solo la bassa partecipazione femminile al mercato del lavoro, ma anche la tendenza delle donne ad auto-relegarsi in posizioni non apicali. Influenzando la formazione di attitudini e comportamenti individuali, la cultura e le religioni hanno necessariamente un ruolo nella formazione delle scelte lavorative femminili. Indubbiamente l’entrata delle donne nel mercato del lavoro dipende anche dall’attitudine maschile verso il lavoro femminile, attitudine che produce un effetto sulle decisioni che vengono prese all’interno delle famiglie. In tal senso, i valori religiosi cui aderiscono gli uomini hanno un ruolo nel determinare l’entrata delle donne nel mercato del lavoro.

Nella Lettera Apostolica Mulieris dignitatem, la dottrina cattolica ribadisce la piena uguaglianza tra uomo e donna all’interno del matrimonio. Tuttavia alla donna sono specificamente attribuiti ruoli di cura e di procreazione che devono avere la precedenza rispetto ad altre forme di occupazione. Il pontefice Giovanni Paolo II è stato uno dei più forti sostenitori di questa tesi, sottolineando lo specifico “genio femminile” nello svolgimento del ruolo di cura.

Se queste sono le premesse, ci si può chiedere se non vi sia una percentuale significativa di donne educate sulla base di tali valori che possa rifiutare l’idea stessa di trovare un’occupazione, per non parlare dell’ambizione di essere leader aziendali o del mondo della politica.

Numerosi lavori mostrano come diverse culture e assetti istituzionali influenzino in modo diverso la formazione di attitudini e comportamenti individuali. Inglehart e Norris (2003) affermano, ad esempio, che la crescente parità di genere è stata determinata dal processo di modernizzazione ed in particolare dal passaggio da società agricole, che riflettono valori tradizionali, a società post-industriali in cui sono presenti attitudini egualitarie. Non sarebbe, secondo gli autori, il reddito a garantire l’uguaglianza di genere nel processo di modernizzazione, bensì i cambiamenti culturali e l’adeguamento dei valori religiosi, nonché il ruolo dello stato attraverso la promozione del potere di agency delle donne ed altre forme di protezione legislativa e sociale. 

Heather Antecol (2003) analizza le determinanti dei tassi di partecipazione femminili in Europa, Medio Oriente, Asia, Oceania e Nord America, utilizzando il data set International Social Survey Program (ISSP). Gli aspetti culturali vengono considerati nell’analisi attraverso l’utilizzo di proxy che includono una serie di domande circa l’attitudine degli uomini verso la famiglia e la distribuzione dei ruoli tra i generi; il risultato che emerge è una maggiore probabilità delle donne di entrare nel mercato del lavoro nel caso in cui il partner mostra un’accettazione di tale scelta.

In un altro lavoro relativo al Cile, paese dalle radicate tradizioni cattoliche, Contreras e Plaza (2010) testano l’ipotesi per cui, nel breve periodo, le attitudini culturali determinerebbero la partecipazione femminile al mercato del lavoro. In particolare le donne più conservatrici risultano partecipare meno al mercato del lavoro.

Vale la pena sottolineare come in questo  tipo di analisi esiste un problema di direzione di causalità, per cui i risultati presentati dagli autori hanno un valore di effetto di breve termine ovvero di associazione tra le variabili. Come, infatti, si può verificare che le attitudini culturali determinino la partecipazione al mercato del lavoro, analogamente è plausibile che la partecipazione delle donne al mercato del lavoro determini un’influenza sulle norme culturali. Stephanie Seguino (2007) ha mostrato come l’entrata delle donne nel mercato del lavoro abbia prodotto un effetto su norme sociali e stereotipi, sebbene con un ritardo temporale di cinque anni. Sarebbe infatti questo il tempo necessario per le donne per avere un cambiamento nella percezione del loro status.

Alcuni recenti lavori microeconomici si sono concentrati più strettamente sull’influenza esercitata dalle religioni su vari aspetti della vita degli individui e non ultimo sulle scelte di natura economico-sociale come la partecipazione al mercato del lavoro. Tali studi argomentano che le istituzioni religiose formali esercitano una grande influenza, attraverso la definizione di norme sociali e comportamenti, sulla distinzione tra i ruoli maschili e femminili (Inglehart e Norris, 2003).

Guiso et al. (2002) utilizzano i dati del World Value Survey ed ottengono che  la minore attitudine  degli individui più coinvolti in attività religiose verso il lavoro femminile non sarebbe specifica soltanto del cattolicesimo o dell’islamismo, ma attraverserebbe trasversalmente molte confessioni religiose, compreso il protestantesimo. Questo risultato sembrerebbe confortare le conclusioni raggiunte da Knudsen and Waerness (1999), i quali affermano che la partecipazione femminile al mercato del lavoro sia piuttosto la conseguenza del processo di secolarizzazione, il quale ha determinato atteggiamenti e comportamenti diversi nei paesi industrializzati occidentali. In particolare, due componenti rilevanti di tale processo sarebbero rappresentati dalla lotta a favore dell'uguaglianza di genere e dal processo di crescita personale e accrescimento di consapevolezza da parte delle donne. In un lavoro successivo, Knudsen e Waerness (2001) costruiscono un indicatore che sintetizza l’attitudine verso la divisione dei ruoli ed il lavoro delle madri utilizzando dati ISSP. Il risultato che ottengono è quello di una minore attitudine liberale di soggetti che frequentano con più assiduità i luoghi religiosi e studiano la dottrina. Infine, nel lavoro di Sjoberg (2004) emerge come ciò che realmente influenza le attitudini individuali è quanto si frequentano i luoghi di culto piuttosto che l’appartenenza ad una confessione religiosa.

Alcune analisi hanno approfondito le differenze tra le varie confessioni religiose ed i risultati ottenuti non sono omogenei: mentre dal lavoro di Gomilshack et al (2000) emerge la maggiore avversione del cattolicesimo verso il lavoro femminile, Sjoberg (2004) sostiene al contrario che la dottrina cattolica e protestante condividono in parte la stessa visione tradizionale dei ruoli nella famiglia, soprattutto perché nei paesi protestanti quali Stati Uniti e Norvegia si è verificata una istituzionalizzazione politica dei valori e tradizioni religiose all’interno del sistema dei partiti. Il cattolicesimo, tuttavia, avendo posto particolare attenzione all’interno della sua dottrina sociale sugli obblighi di cura femminili, avrebbe avuto maggiore influenza rispetto al protestantesimo su una distribuzione più tradizionale dei ruoli.

Un altro aspetto da considerare è l’influenza che le religioni hanno non solo sulla formazione delle attitudini individuali, ma anche sullo sviluppo delle legislazioni ed istituzioni nazionali (Algan and Gauch, 2004). Se infatti in una nazione è diffusa l’idea che l’uomo sia il breadwinner della famiglia, probabilmente le politiche che verranno attuate rifletteranno tale concezione. Ricordiamo inoltre che l’Italia è tra i paesi in cui la famiglia è il principale erogatore di servizi di welfare ed in cui l’emancipazione dei membri della famiglia avviene all’interno della famiglia piuttosto che dalla famiglia (Bettio e Villa, 1998), per cui le donne si trovano nella condizione di dover restituire durante tutto l’arco della vita l’attività di cura nei confronti dei figli, dei genitori e dei disabili. Se fossero presenti politiche che favoriscano la creazione di un mercato per occupazioni relative a servizi di cura (quali servizi in kind o trasferimenti monetari vincolati) si produrrebbero effetti positivi sull’occupazione femminile, sollevando le donne dalla restituzione di servizi ai familiari.

 

 

Bibliografia

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