Per rispondere alla crisi climatica dobbiamo ripensare l'economia con un approccio femminista. Sulle nostre pagine interviene Julie Nelson, economista dell'Università del Massachusetts, mentre è in corso la 29esima edizione della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, quest'anno dedicata a ridefinire la finanza del clima
In tutto il mondo, le donne stanno svolgendo un ruolo fondamentale nella ricerca e nell'azione contro il cambiamento climatico. E il modo in cui i dualismi di genere hanno strutturato i nostri modi di pensare hanno contribuito a generare questa crisi. Nella civiltà industriale occidentale, ad esempio, la razionalità e la tecnologia tendono a essere culturalmente codificate come “maschili”, mentre la natura e la cura come “femminili”.
È evidente come questo modo di pensare abbia influenzato il campo di studi di cui mi occupo, l'economia. A partire dalla Rivoluzione industriale, con la sua fascinazione per le macchine, gli economisti (quasi tutti maschi) hanno proposto una visione dell'economia come qualcosa di simile a una macchina, che funziona secondo leggi accostabili a quelle della fisica. Quest'idea è rimasta nel tempo invariata. Nell’ambito della disciplina, il pensiero dominante è stato costruito sull’idea di mercati competitivi potenti ma impersonali, dell’autonomia individuale, dell’interesse personale e della scelta razionale. A completare il quadro, una fede cieca nella misurazione e nella matematica come garanti dell'oggettività.
Questo approccio, e le sue carenze, si rendono chiaramente manifesti nell'analisi convenzionale del cambiamento climatico e nelle raccomandazioni politiche che ne scaturiscono. Ad esempio, in un recente articolo di William B. Nordhaus, Premio Nobel nel 2018 per le Scienze economiche per il suo lavoro decennale sui modelli di economia del cambiamento climatico, pubblicato da un prestigioso think-tank, continuano a figurare alcune questioni a cui è difficile dare risposta. Lo studioso, e altri e altre come lui, hanno cercato di proporre delle soluzioni attraverso ipotesi tecniche ai seguenti interrogativi:
in che modo dobbiamo pensare alle prossime generazioni? I tassi di interesse dei mercati finanziari vengono utilizzati per “fare sconti” sul futuro. Il ragionamento è che questi sconti rivelano le preferenze delle persone riguardo ai consumi nel presente e nel futuro, non solo per i prossimi mesi o anni, ma all'infinito e per tutte le generazioni che verranno.
In che misura dovremmo preoccuparci dei problemi globali di povertà e disuguaglianza dovuti al cambiamento climatico? Non è possibile dare risposte obiettive, perché non c’è una visione comune su questo punto. Gli economisti, di conseguenza, lasciano che sia qualcun altro a occuparsi della questione.
Come possiamo rispondere a una crisi in cui la fonte stessa della vita e del sostentamento umano si sta rapidamente deteriorando? Nordhaus e altri studiosi sostengono che la crescita economica continuerà all'infinito.
In generale, queste analisi suggeriscono di “andarci piano” nell’adottare politiche di mitigazione e adattamento al cambiamento climatico, per non rallentare indebitamente la crescita economica. Lungi dall’essere i meri scarabocchi da torre d'avorio di persone socialmente o eticamente incapaci, questi scritti hanno influenzato le raccomandazioni del Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite e dell'Agenzia per la protezione dell'ambiente degli Stati Uniti.
Altri studi economici convenzionali si sono distaccati dall'approccio di Nordhaus, ma di solito in modi relativamente marginali. Anche quei pochi che nel mondo accademico riconoscono la necessità di “un'azione urgente e di un cambiamento radicale” tendono comunque a pensare che il ruolo principale degli economisti sia quello di elaborare “una varietà di modelli”[1]. Temo che i continui tentativi di cogliere gli aspetti chiave di sistemi naturali e sociali altamente complessi e imprevedibili attraverso modelli basati su una fuorviante metafora meccanica non offrano prospettive molto promettenti.
Considerato che il pensiero maschilista e dominante è stato determinante nel favorire la crescita dell'industria basata sulle emissioni di carbonio e nel prolungato (e tuttora presente) disinteresse per le sue conseguenze ecologiche, è naturale cercare delle alternative. Molti di noi credono che le responsabilità verso le future generazioni e verso le persone che sono impoverite o duramente colpite dal cambiamento climatico (che non hanno contribuito a creare) non possano essere tecnicamente cancellate. Si tratta di questioni etiche che meritano un dibattito profondo, che coinvolga l’intera società. Riconosciamo la necessità di un'azione immediata e radicale, e possiamo credere che l'interdipendenza, la generosità, la cooperazione, il lavoro di cura, l'attenzione ai limiti sociali e ambientali e la risoluzione dei problemi attraverso il discorso democratico dovrebbero far parte di quell'alternativa. Questi aspetti sono, ovviamente, codificati da un punto di vista di genere, come le componenti più femminili dell'esperienza umana.
È una fortuna che molte studiose, studiosi, scrittrici, scrittori, attiviste e attivisti prendano sul serio le crisi dell'ecologia e dell'assistenza. Tuttavia, è un peccato che molti prendano sul serio anche gli insegnamenti della disciplina economica. Sulla base della convinzione per cui, come sostengono gli economisti, i sistemi capitalistici sono basati sull'avidità e sulla competizione, alcune pensatrici tendono a rifiutarli del tutto e a proporne una sostituzione totale.
La scrittrice Helena Norberg-Hodge, sostenitrice del localismo, ad esempio, propone di “smantellare le strutture economiche” e di lavorare per un futuro in cui ci sia “una fioritura dell'artigianato e un uso attento dei materiali naturali, legato ai luoghi. Le persone accrescerebbero la loro creatività e condurrebbero vite ricche e diverse, sostenute da reti di relazioni”. La scrittrice Myfan Jordan denuncia le “macchinazioni iper-maschili di un capitalismo di scambio che sta distruggendo il nostro pianeta” e immagina “una ri-matrimonializzazione della cultura umana” costruita su relazioni basate sul dono (piuttosto che sullo scambio).
I sostenitori della New Economy, tuttavia, tendono, semplicemente non discutendoli, a sminuire l’importanza di interrogativi come:
se le economie diventeranno tutte locali e artigianali, che ne sarà delle grandi popolazioni che attualmente vivono in paesi altamente dipendenti dai servizi o dalle esportazioni?
Da dove vengono le persone che popolano le nuove economie, che offrono generosamente i prodotti del loro tempo e del loro lavoro le une alle altre e sono in grado di lavorare in modo cooperativo e democratico tra loro in ogni momento?
Alla domanda precedente si potrebbe rispondere dicendo che sarà la New Economy stessa a plasmare le persone in una direzione cooperativa. Quali prove abbiamo che questo funzioni, e come ci arriveremo?
In generale, le proposte della New Economy sono molto visionarie e poco pratiche.
In effetti, le evidenze di cui disponiamo suggeriscono che le risposte realistiche date a queste questioni complesse siano anche piuttosto cupe. Se le persone dovessero fare affidamento solo sulle risorse locali, le popolazioni di alcune aree dovrebbero ridursi drasticamente, per fame, emigrazione massiccia (e probabilmente non volontaria) o politiche di natalità draconiane. Non che in passato non si sia cercato di creare nuove economie: sono molti i casi, nella storia dell'umanità, in cui si sono sviluppate piccole comunità basate su visioni utopiche, che hanno dovuto affrontare una serie di problemi, non sono riuscite a espandersi e alla fine si sono disgregate. Di solito le persone si rivelano più problematiche di quanto la visione fondativa lasciasse presagire.
Infine, dato che l'economia capitalista viene raffigurata come un ingranaggio enorme, potente e meccanico che schiaccia la vitalità umana e le comunità, smontarla completamente sembrerebbe un'impresa titanica. Ho letto molte idee su come sarà, una volta superata la fase di “smantellamento”. Ma non riesco a pensare a un modo in cui lo smantellamento possa essere realisticamente realizzato, se non con un collasso globale totale autoinflitto a un costo umano altissimo.
Eppure, non tutto è perduto.
Togliamo per un attimo le lenti binarie, di genere, maschio/femmina, o/o, e guardiamo alle persone reali e alla vita economica reale.
Se analizziamo gli esseri umani reali senza dare per scontato che siano o egoisti o generosi, scopriremo che siamo un po' entrambe le cose. Il modo migliore per esprimerlo è l'idea di Howard Margolis, neither Selfish Nor Exploited (né egoisti né sfruttati, abbreviato in Nsne). In altre parole, la maggior parte delle persone si impegna a dare il proprio contributo per chi sta peggio o per il bene comune, a patto di avere ciò di cui ha bisogno, di credere di non essere stata ingannata e di vedere che anche gli altri si danno da fare. Se queste condizioni non si verificano, tendiamo a orientarci maggiormente verso l'autoprotezione.
Analizziamo poi le organizzazioni reali: “a scopo di lucro” è davvero sinonimo di avido e meccanico? Chi studia le aziende come organizzazioni sa che nessuna azienda durerebbe più di un giorno se tutte le persone al suo interno fossero totalmente egoiste. Per portare a termine le cose, le persone hanno bisogno di cooperare - altrimenti che bisogno ci sarebbe di fare riunioni di continuo! E se le aziende devono essere in grado di sostenere i loro costi, l'idea che il profitto debba essere massimizzato a tutti i costi ha avuto origine proprio nell’ambito del pensiero economico.
Per le aziende, c’è molto altro in ballo oltre ai profitti. Allo stesso tempo, non è vero che le persone si comportano sempre meglio nelle piccole organizzazioni (apparentemente) basate sull'amore, sui legami comunitari o sul servizio pubblico. Esiste la violenza domestica all'interno delle famiglie. I piccoli ristoranti, le lavanderie e posti simili che assumono all'interno di comunità etniche o di immigrati sono spesso teatro di pratiche lavorative abusive. I dirigenti di alcune organizzazioni non profit prendono stipendi irragionevolmente alti. Alcuni “funzionari pubblici” si comportano più come cleptocrati.
Gli esseri umani sono esseri umani, ovunque si trovino.
Di fatto, il pensiero dualistico accentua le attuali crisi del cambiamento climatico e dell'assistenza. Chi si perde nell'economismo e nei sogni utopici sta essenzialmente dicendo alle persone che attualmente dirigono le aziende e alla classe politica che va bene continuare a portare avanti le cose “come si è sempre fatto”.
Gli economisti tradizionali lo fanno perché ignorano le crisi, mentre quelli della new economy spesso non provano nemmeno a far cambiare idea a chi detiene il potere, perché credono che le loro decisioni siano inesorabilmente guidate dalla macchina capitalistica.
E se invece dicessimo che non va bene fare le cose come le si è sempre fatte? E se ci unissimo per chiedere alla classe e ai decisori politici di agire come esseri umani etici e responsabili, con consapevolezza e compassione per gli effetti che le loro decisioni hanno sul mondo?
Un modo pragmatico di procedere sarebbe quello di partire da dove siamo effettivamente e dalle economie che abbiamo. Le economie sono, e sono sempre state, organizzazioni sociali complesse, popolate dagli esseri umani. Riconoscendo questo aspetto, credo che saremmo in grado di pensare più chiaramente al tipo di sistema di approvvigionamento che vogliamo e a come renderlo sostenibile dal punto di vista produttivo, sociale e ambientale. Soprattutto, quando pensiamo a come arrivarci partendo da dove siamo ora, possiamo accantonare le prospettive di stasi o di grandi balzi e prendere invece in considerazione progetti realizzabili.
Che cosa potete fare voi, io o noi, oggi, per migliorare ciò che è buono e disincentivare ciò che non lo è in quello che già abbiamo?
Note
[1] N. Stern, J. Stiglitz, C. Taylor, The economics of immense risk, urgent action and radical change: towards new approaches to the economics of climate change. Journal of Economic Methodology, 29(3), 181-216, 2022.
Questo articolo nasce dall’intervento che l'autrice ha tenuto durante l'ultima conferenza annuale dell'International Association for Feminist Economics che ha avuto luogo a Roma dal 3 al 5 luglio 2024 e di cui inGenere è stata media partner.