La rivista DWF donnawomanfemme ci ha intervistate sulle donne e l'Europa. Ripubblichiamo l'intervista contenuta nell'ultimo numero intitolato "Europa. Ragioni e sentimenti"

L'Europa che viviamo è precaria, in crisi, senza visione. Noi, in quanto donne, pensiamo di poter ricostruire un'Europa fondata sulle possibilità, non sui divieti, sui muri, sui confini. Voi di InGenere siete sempre state attente alla dimensione europea, molto più di altri gruppi. Qual è secondo voi il tema/spazio in cui il contributo delle donne può rivelarsi determinante per la costruzione di un'Europa delle possibilità? In altri termini: dov'è che la cultura e le pratiche delle donne possono incidere per costruire appunto una nuova Europa?
La difesa della democrazia è sempre più a rischio. In questo senso bisogna riflettere di più sul ruolo (spesso negativo) delle donne della destra europea (Le Pen come May, ed altre). La pace. L’ultima volta che c’è stata una qualche reazione a decisioni di guerra è stato quando gli USA hanno invaso l’Iraq. Poi ci sono stati silenzi su quello che avveniva con le primavere arabe (e gli interventi di singole nazioni europee in Nord Africa) e in Medio oriente e di questo paghiamo gli effetti disastrosi. Siamo stanche di vedere in tv giovani maschi brandire felici i loro fucili “entrando vittoriosi” di qua e di là in mezzo a cumuli di macerie. La guerra piace a molti uomini e sarebbe il caso che lo dicessimo chiaro e tondo. Non crediamo che piaccia a molte donne. Vorremmo un’azione più decisa dell’Europa in questo senso. Ovviamente poi c’è da difendere il modello sociale europeo di assicurazione contro i mali della vita (malattia, vecchiaia) o contro le debolezze dell’esistenza. Questo modello è a difesa delle donne ed è sotto attacco più che mai. Mascherate da denuncia di sprechi e disservizi ci sono troppe voci per lo smantellamento della cura pubblica (sanità, istruzione, ecc.). Altre questioni: immigrazione e, essendo una redazione di economiste, non possiamo non dire economia, che influenza democrazia, pace e sistema sociale (il solito imperialismo dell’economia).
La vostra proposta editoriale è molto attenta alle buone pratiche, diffuse negli altri paesi europei. Questo taglio politico è per noi interessante e ci porta a chiederci: come possiamo rendere permanente e cogente il riferimento alle buone pratiche delle donne europee nelle scelte di policy europee?
Non pensiamo che contino solo le buone pratiche delle donne, ma in generale le buone pratiche di genere (in una visione multidimensionale). Aggiungiamo che spesso si impara di più dalle cattive pratiche, nel tentativo di correggerle. La riflessione su quello che fallisce o riesce altrove è uno degli strumenti più importanti per ottenere davvero dei risultati, e non soltanto far finta di darsi da fare. Sul tema più specifico delle misure per la gender equality, a livello italiano la diffusione e promozione delle buone pratiche è compito del Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio: un’attività che costa poco e serve a molto, ma non è stata fatta a sufficienza. A livello europeo poi abbiamo una confusione di istituzioni che fanno tutte la stessa cosa (Commissione europea, Parlamento europeo, European Institute of Gender Equality).
Nell'ultimo anno avete lavorato a lungo sugli spazi urbani, portando avanti una visione che analizza e denuncia i danni del pensare in modo “neutro” le case, le piazze, i luoghi pubblici, i territori. Noi siamo convinte che un'Europa già integrata viva solo nelle città e sia radicata, nel bene e nel male, nelle esperienze urbane europee: si potrebbe ripartire da queste considerazioni per togliere peso politico agli Stati-Nazione, ai loro particolarismi egoisti, ai loro desideri di potenza. Siete d'accordo? Oppure ci sono altre strade?
La questione è complessa. Ci sono le città, ci sono le città nelle città (quartieri pianificati in modo da essere autosufficienti e in alcuni casi tenuti fuori dal resto del tessuto urbano), ci sono le province e le “campagne” e i piccoli comuni in cui forse si conservano meglio alcune derive dei nazionalismi, ma ci sono anche le periferie/ghetti metropolitani di cui tanto si parla a proposito dei nuovi terrorismi. Dire città oggi può significare molte cose insomma. Nello speciale di inGenere cercavamo soprattutto di capire come una pianificazione urbana attenta al genere si traducesse in termini di qualità della vita per le donne e per tutti. A livello di politiche ci sono diversi strumenti, a partire dal bilancio di genere, passando per il gender city manager nelle PA, fino ai condomini in cohousing. I casi che riportiamo fanno un confronto tra città europee diverse, e sono soprattutto quelle dell’Europa del nord ad essere più avanti. Sappiamo che quest’anno c’è stato un dibattito avviato dalla libreria delle donne di Milano che si muove forse nella direzione che chiedete. Oltre allo speciale recente di inGenere “Che genere di città”, segnaliamo che la Town Planning Review ha appena realizzato un numero speciale su "Planning the Gendered City".
Vorremmo chiedervi infine: a quattro anni dalla pubblicazione del Pink New Deal, che bilancio ne date? Quali proposte politiche ritenete più urgenti?
Il panorama nel frattempo è mutato e non tutte le proposte sono attuali, alcune perché le cose sono cambiate in meglio (la legge 40 è stata modificata a colpi di sentenze) altre perché contrastavano misure non più nel dibattito pubblico (come il quoziente familiare, abominio di cui per fortuna non si parla più), ma la maggior parte delle proposte del Pink New Deal rimangono più che attuali. È difficile stabilire una gerarchia tra le priorità. Il pink new deal serviva a dimostrare soprattutto che esistono proposte e misure concrete per affrontare situazioni che sembrano destinate ad andare così (male) e che invece possono cambiare (in meglio). Se lo scrivessimo oggi integreremmo il tema della maggiore autonomia/responsabilità finanziaria delle donne, specialmente nei nuclei familiari. Citiamo il paragrafo finale dell’articolo: “Sarebbe importante un supporto adeguato per ovviare alla storica inadeguatezza delle donne in tema di finanza personale, per avvicinarle a nuovi ruoli e nuove responsabilità, e suscitare il loro desiderio di apprendere. Sarebbe ottimale che tale supporto non arrivasse da singole componenti dell’offerta (banche, compagnie di assicurazioni), ma che vi fosse un supporto “neutrale” per fornire strumenti di pianificazione adeguati a donne che vogliono fronteggiare la pianificazione finanziaria con conoscenze adeguate. Il “pink target” è difficile da colpire, ma un’adeguata scelta dei contenuti oltre che dei modi di comunicazione, tenuto conto del fatto che tra l’altro le donne richiedono più informazioni per arrivare ad una concreta decisione finanziaria o di risparmio, non è certo impossibile.” Il “pink new deal” era anche una difesa del modello sociale europeo, in questi anni ha invece continuato a prevalere la logica dell’austerity. Noi abbiamo rimesso l'accento sul fatto che vogliamo investimenti in infrastrutture sociali[1] e raccolto una serie di articoli che supportano il fatto che questi investimenti convengono a tutti, inclusa una simulazione finanziaria condotta sugli asili nido e che dimostra come se si investe in asili nido, la spesa si ripaga da sola nel breve termine. Studi come questo rappresentano già una versione pragmatica ed elaborata di possibile ipotesi di intervento da proporre in sede politica, non una semplice voce di un elenco di desiderata. A proposito di finanziaria ci viene da chiederci se le famose risorse per la crescita non sarebbero meglio servite da progetti come questo che da elargizioni più o meno a pioggia. Non pensiamo che si siano ottenuti molti risultati sulla riorganizzazione sociale. È vero che in questi anni di crisi il gap di genere tra i giovani è più basso, ma è un effetto ottico: un’uguaglianza al ribasso, siamo pari dove gli uomini se la passano peggio. Va un po’ meglio per quanto riguarda l’accesso delle donne a potere e decision-making.
Note
[1] Per infrastrutture sociali intendiamo quei servizi che ci permettono di soddisfare interessi e bisogni collettivi e liberare il tempo delle donne: scuole a tempo pieno, asili, strutture per anziani. Portare fuori dalle case parte del lavoro di cura crea molta occupazione (femminile, ma non solo), migliora la qualità della vita di chi già lavora e rende possibile accettare un lavoro per chi lo desidera.
Questa intervista è tratta da DWF "Europa. Ragioni e sentimenti"