Dati

Diminuisce la popolazione, aumentano gli anziani e le politiche lasciano indietro le donne. Quello che ci preoccupa del nostro futuro demografico 

Il futuro che
non ci aspetta

6 min lettura
Foto: Unsplash/ Ryoji Iwata

La recente pubblicazione dell’Istat sul futuro demografico del Paese ha confermato le previsioni sul calo della popolazione e sul suo invecchiamento “certo e intenso”. L’età media passerà dagli attuali 44,9 a oltre 50 anni nel 2065. Il calo demografico suscita forti preoccupazioni: riduzione dell’offerta di lavoro e aumento del rapporto fra popolazione anziana e popolazione in età di lavoro, sostenibilità dei conti previdenziali e sanitari, forse anche rallentamento della produttività e della crescita.

Già nel 2016 l’Italia aveva il più alto indice di dipendenza degli anziani[1] (34,3%, contro il 29,3 della media Ue), destinato ad aumentare in linea con i trend di tutti i paesi europei. È una tendenza che riguarda tutti ma che è particolarmente accentuata per alcuni stati, tra i quali l’Italia, appunto, e la Germania. Ma l’indice di dipendenza, già in sé allarmante, sottostima la gravità del problema italiano, che è in condizioni assai peggiori degli altri paesi europei se si guarda al rapporto tra pensionati e lavoratori attivi. Lo squilibrio occupazionale aggrava quello demografico[2].

Problema che contiene però in sé anche una possibile soluzione, o via d’uscita.

In un recente articolo l’Economist porta argomenti a sostegno di una tesi che si è andata via via rafforzando negli ambiti della ricerca e dell'analisi delle politiche: l’uguaglianza di genere non è più (o almeno non solo) un obiettivo desiderabile per ragioni ideali, morali, esistenziali; ma sta diventando una condizione di sopravvivenza per il sistema economico attuale. È l’ipotesi che si avanzava, parecchi anni fa, nel libro Questioni di genere, questioni di politica (Carocci, 2006).

Con la grande frattura creata dalla crisi economica, l’accelerazione dell’innovazione tecnologica (creatrice e distruttrice di benessere e occupazione) e la conferma dei trend demografici, gli anni successivi hanno rafforzato l’ipotesi, che si sta trasformando in senso comune, senza che tuttavia ne seguano, purtroppo, concrete conseguenze nelle politiche economiche e sociali. Anche nella recente campagna elettorale italiana, pur caratterizzata da una base di rifiuto e rivolta contro un establishment considerato non in grado di risolvere i problemi, e tutta concentrata su proposte alternative tanto miracolose quanto poco realistiche, nessuno ha messo al centro il lavoro delle donne come leva per il benessere di tutti.

Fonte: Istat, 2018

Torniamo all’Economist, che nota che a differenza della Germania, l’Italia ha una opportunità che deriva dalla sua stessa arretratezza in termini di lavoro femminile: entrambi i paesi, scrive il settimanale britannico, devono fronteggiare una severa riduzione della popolazione in età lavorativa, ma “in Italia il tasso di occupazione femminile è molto indietro rispetto a quello maschile”, cosicché “la popolazione attiva può avere un balzo in avanti se il gap si chiude rapidamente, e se tutti lavorano di più e acquisiscono più avanzati titoli di studio”. Il lavoro delle donne ci può far uscire dalla trappola demografica; e in questo percorso l’Italia può far molto meglio della Germania.

Quali politiche

Ma anche se – almeno a parole – sull’obiettivo di aumentare l’occupazione tutti concordano, non c’è sufficiente enfasi, nel dibattito di politica economica, sulle politiche necessarie per attuarlo.

L’Economist ne elenca alcune: nelle politiche pubbliche, le forme che incentivano le donne a svolgere lavoro retribuito e le mantengono sul mercato del lavoro (dunque, permessi genitoriali più generosi e paritari, aumento della spesa in  servizi sociali ed istruzione per la prima infanzia, servizi sociali e sanitari per la cura degli anziani); nel settore privato, il cambiamento di mentalità e organizzazione delle imprese, sia per agevolare la conciliazione vita-lavoro che per adeguarsi a una forza lavoro sempre più anziana.

L’aumento dell’età pensionabile, mantra e centro del dibattito di questi anni, da un lato è una tendenza inevitabile per la sostenibilità finanziaria dei sistemi pensionistici; dall’altro si è rivelato un problema, e ha nutrito disagio e proteste sociali che si sono visti anche nel voto recente in Italia, per la mancanza di spazio all’ingresso di giovani, il blocco del ricambio generazionale (tanto più negativo in tempi di veloce transizione tecnologica), il mancato adeguamento dei posti di lavoro all’invecchiamento degli occupati.

Negli ultimi anni in Italia, in virtù della segmentazione del mercato del lavoro e dell’aumento dell’età pensionabile delle donne, l’occupazione femminile ha tenuto, come “in difesa”: si tratta di farne invece una componente dell’attacco, ossia della strategia per uscire dalla crisi e fronteggiare lo shock demografico che già ci ha investito e ancor più ci investirà. E per farlo è necessaria una doppia politica, che incida sulla domanda come sull’offerta. Le politiche volte ad aumentare l’offerta di lavoro, dei giovani così come delle donne, possono essere efficaci solamente se, contemporaneamente, si attuano politiche volte ad accrescerne la domanda. Se le due politiche non vanno insieme, gli incentivi rischiano di cadere nel vuoto, con un inutile spreco di risorse pubbliche. Questo va tenuto ben in mente, ogniqualvolta si legge dell’impatto potenziale positivo sulla crescita di politiche che aumentano l’offerta di lavoro. L’accento è su ‘potenziale’: gli effetti benefici sulla crescita non si concretizzeranno senza l’attivazione della domanda. Un esempio virtuoso di una politica che ha effetti positivi sia sull’offerta che sulla domanda è la creazione di asili nido, la cui presenza agisce sull’offerta, agevolando l’occupazione femminile, e sulla domanda, attraverso l’assunzione di nuovo personale. Un esempio di politiche parziali, che rischiano di essere inefficaci, sono gli sgravi fiscali per favorire l’assunzione di giovani o donne, che possono avere effetti positivi solo se le imprese hanno prospettive di impiego profittevole della maggiore occupazione 

Quali lavori

Politiche come quelle appena descritte sono molto più accessibili, in termini finanziari, e realistiche di alcune ricette proposte come miracolose nella campagna elettorale e che adesso arriveranno alla prova del governo (dalla cui agenda, per quel che si vede finora, le donne sono sparite). Non va trascurato inoltre l’impatto moltiplicativo che la componente femminile dell’occupazione può avere. Andrebbero messe in agenda in fretta, e sostenute da un ampio movimento di opinione e pressione, senza negarci che ci sono anche possibili risvolti problematici che evidenziato la necessità di un contesto e un progetto più ampio.

Nella grande disruption che l’innovazione tecnologica sta portando, non sappiamo ancora quanti lavori e quanto lavoro si perderanno; ma anche i più ottimisti sul bilancio finale avvertono che, nella transizione, ci saranno grandi perdite, che penalizzeranno settori e coorti d’età[3]. Lavoratori e lavoratrici che si sono trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato, senza la forza individuale di riqualificarsi e senza copertura collettiva e pubblica.

In questo quadro, c’è il rischio che una pur apprezzabile ondata di lavoro femminile si rivolga solo nella parte “povera” del mercato: è vero che è proprio l’assenza delle donne meno istruite a caratterizzate il mercato del lavoro italiano e tirare giù il tasso di occupazione femminile (il gap si riduce man mano che sale il titolo di studio), e che dunque un aumento consistente dell’occupazione femminile si potrà realizzare solo quando entreranno sul mercato del lavoro retribuito anche le donne meno qualificate e meno formate. Ma in un’ottica dinamica, che non guarda solo al mercato del lavoro com’è oggi ma anche a quello che presumibilmente sarà, si può temere una innovazione tecnologica che segmenti ulteriormente il mercato del lavoro (anche ai danni delle donne) e attivare strumenti e politiche per evitarlo.

Per fare ciò, è necessario che le politiche per lo sviluppo e l’innovazione – quelle che chiamavamo in passato “politiche industriali” – e le politiche sociali non siano separate e distanti, ma facciano parte di un unico piano.  

Note

[1] L’indice di dipendenza è il rapporto fra la popolazione non in età di lavoro (popolazione fra 0 e 14 anni e più di 64) e la popolazione in età di lavoro (15-64). 

[2] La connessione tra le sfide demografiche e il mercato del lavoro è oggetto di un lavoro, in via di pubblicazione, di A. Simonazzi, V. Ciampa e L. Villamaina.

[3] I dati recenti sull’occupazione resi noti dall’Istat, per esempio, sembrano suggerire che la coorte di età fra i 35 e i 49 anni, un tempo il nerbo dell’aristocrazia del lavoro, sia quella in maggior sofferenza sotto i colpi delle crisi industriali (-246.000 fra marzo 2017 e marzo 2018).