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Nel suo discorso al Senato, il nuovo presidente del consiglio Mario Draghi ha messo al centro delle politiche di contrasto al divario di genere la risoluzione delle disparità salariali. Ma se non si interviene prima su quote e occupazione femminile, rischia di essere un discorso buttato al vento

La parità spiegata
al nuovo governo

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Foto: Unsplash/ Andrej Lišakov

Mi sono preparata ad ascoltare il discorso programmatico del presidente Draghi al Senato con distaccata empatia, mi si perdoni l’ossimoro. Grata a superMario di rischiare la sua immensa reputazione per riportare sui binari un paese che rischia di deragliare a ogni curva, aspettavo rassicurazioni sui propositi di un governo con cui stento a riconoscermi come donna e come esperta di tematiche di genere. 

Da appassionato melomane (così di lui si racconta), il presidente mi ha regalato ‘croce e delizia’. Non ricordo molti altri discorsi programmatici che abbiano ripetutamente insistito sull’importanza di aggredire le disparità uomo-donna, che la crisi pandemica ha esacerbato, ma non ha certo creato. Ho sentito rivendicare il diritto all'autoderminazione, e in un discorso di cotanto peso politico mi è sembrata quasi una rivoluzione culturale, almeno nel panorama italiano. Ho inteso l’impegno del presidente a piegare il tradizionale calendario scolastico alla necessità di recuperare il tempo sottratto alla didattica in presenza e ciò mi ha confortato come insegnante.

Ma per ben due volte ho avuto un piccolo sobbalzo sulla sedia. La prima è stata quando ho sentito il presidente affermare che "l’Italia presenta oggi uno dei peggiori gap salariali tra generi in Europa", lasciando intendere che è nel contrasto alla disparità salariale che si trova una o addirittura ‘la’ priorità di policy nella lotta alle disparità di genere. La seconda, quando l’ho sentito declamare che "una vera parità di genere non significa un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge"

Inizio dalla prima affermazione, perché può essere fuorviante. La misura più diffusa della disparità salariale è il differenziale salariale orario (gender pay gap) basato sulla differenza tra quanto guadagna un dipendente ‘medio’ per ora lavorata e quanto guadagna una dipendente ‘media’. Nel 2018 una donna guadagnava il 14,8% in meno di un uomo in Europa, e il 5% in Italia, terzo miglior paese europeo in codesta classifica. Da cosa deriva l’apparente ‘vantaggio’ dell’Italia? Dal suo maggior svantaggio, ovvero dalla scarsa partecipazione femminile. Mancano infatti all’appello del mercato del lavoro italiano soprattutto le donne a bassa istruzione, e ciò tende ad alzare il valore medio salariale di quelle poche (e istruite) che lavorano, riducendo così la differenza con i lavoratori maschi. 

Una seconda misura che viene usata per catturare le disparità salariali è il differenziale mensile o annuale. Anche in questo caso, però, l’Italia non spicca per valori particolarmente elevati rispetto al resto dell’Europa: se si considerano i soli dipendenti, il gap su base annuale  si attesta al 17,7% in Italia contro il 20,7% nell’Europa a 27. Insomma, la disparità si allarga passando dall’ora all’anno, e questo succede sia in Italia che altrove, ma, ancora una volta, la ragione sta nel quantum di occupazione, perché le ore e i giorni lavoratati dalle donne rispetto agli uomini sono molti di meno. E quindi è ovvio che le donne guadagnino meno.

Perché dunque tanta enfasi sull’importanza di aggredire il gap salariale in un paese come l’Italia dove la priorità è chiaramente la scarsa occupazione? Tra le molte ragioni – alcune ‘buone’ altre ‘cattive’, sceglierei un po' maliziosamente quanto segue. La disparità salariale uomo donna è un argomento piuttosto complesso che si può affrontare correttamente solo con l’ausilio di conoscenze specialistiche. Evocarla ha, però, un appeal immediato, della serie 'con questo si va al cuore del problema'. A dispetto della complessità, poi, un politico o un tecnico che enfatizzi il gap se la può sempre cavare proponendo maggiore trasparenza su come le imprese fissano i salari, nella speranza di far emergere (ed eliminare) un po' di discriminazione.

Mentre è difficile immaginare che qualsiasi autorità pubblica si sostituisca alle parti sociali per ‘raddrizzare’ i salari a favore delle donne, è meno difficile immaginare che la medesima autorità riesca a imporre più ‘trasparenza’. Purtroppo, però, la politica della trasparenza nuoce poco ma serve poco più di quanto nuoccia. A livello Europeo (Ue27) il differenziale su base oraria è passato da 17 punti percentuali nel 1994 all’attuale 14.8 nel giro di 22anni, nonostante la storia del dopoguerra sia punteggiata da ripetuti tentativi d'imporre trasparenza in questo o in quel paese.[1]

Se la tanto invocata trasparenza sulla fissazione dei salari solleva qualche dubbio di efficacia, il deprecato "farisaico rispetto delle quote" se la cava decisamente meglio. Premetto che chi conosce la lunga storia delle battaglie a favore della parità sa che le donne sono arrivate a imporre le quote praticamente per disperazione. Poche dissentono dall’idea che andrebbero garantite le pari opportunità alla partenza, non all’arrivo e grazie alle quote. Ma possiamo fidarci che la promessa di pari opportunità alla partenza sia finalmente soddisfatta solo perché a prometterlo è il super-presidente?

Si pensi all’istruzione. Abbiamo tutti creduto che dare alle donne lo stesso livello di istruzione fosse la chiave per raggiungere la parità, e abbiamo presto scoperto che non basta all’uopo nemmeno essere più istruite degli uomini o conseguire migliori voti a scuola. Proseguendo nel ragionamento, non è più ragionevole valutare senza pregiudizi cosa abbiamo ottenuto grazie alle quote? Tra il 2010 e il 2018 l’Italia ha guadagnato più di dieci punti percentuali (su un massimo di cento) nell’indice europeo dell’uguaglianza di genere Eige, passando da un 53,3 a un 63,5Maggiori salari? Maggiore occupazione? Non proprio.

Il risultato è dovuto quasi esclusivamente all’aumento delle donne nei luoghi decisionali, dalle assemblee regionali ai consigli di amministrazione delle grandi imprese. Come vogliamo valutare tutto questo? Va soprattutto a favore di donne ‘borghesi’? Forse. Migliora la reddittività delle imprese? Non sempre ma spesso. Migliora la qualità della politica? Va verificato, ma non possiamo escluderlo. È un risultato che ci basta? Certamente no, ma possiamo davvero permetterci di tornare indietro? Mi sembra difficile negare che qualche progresso ci sia stato, in un tempo relativamente breve, e che lo si debba anche alle quote. 

Nel chiudere il discorso programmatico il presidente Draghi ha insistito sull’importanza della competenza tecnica di chi deve intervenire su materie complesse con l’ambizione di raggiungere risultati importanti. L’esempio era quello della riforma della tassazione portata a casa da una squadra eccellente sotto la guida del ministro Vanoni. Perdoni l’ardire, presidente, ma intervenire sulla diseguaglianza di genere in questo paese non è meno complesso che porre mano alla tassazione. La squadra è all’altezza? 

Note

[1] Eurostat base dati online (serie EARN_GR_HGPG per il 1994 e EARN_GR_GPGR2 per il 2018).Discontinuità di tipo statistico richiedono cautela nell’interpretare l’andamento di lungo periodo del gender pay gap, ma non sono a mio avviso tali da smentire la lentezza con cui questo indicatore è migliorato nel tempo.

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