Politiche

Dall'1 luglio i presidenti di Estonia, Bulgaria e Austria sono di turno presso il Consiglio dell'Unione europea. Ecco cosa ha deciso la nuova "triade" in materia di eguaglianza di genere

Parità di genere in Europa,
le dichiarazioni non bastano

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Foto: Flickr/ European Council

Le presidenze di turno del Consiglio dell’Unione europea devono presentare un programma delle priorità e delle attività che intendono perseguire durante il proprio semestre e, in un orizzonte più ampio, un programma condiviso con i due governi che ricopriranno la presidenza nei due semestri successivi. L’obiettivo è il mantenimento di una linea politica costante nel tempo, nella consapevolezza che la maggior parte delle azioni necessitano di una prospettiva ben più ampia di sei mesi per essere implementate e per poter cominciare a produrre i primi effetti.

Nell’ambito della parità di genere, la cosiddetta “triade” presenta un documento specifico, la Trio presidency joint declaration on equality between women and men: questo documento contiene sia le priorità e le azioni da perseguire nei 18 mesi complessivi sia le iniziative concrete che avverranno all’interno dei singoli semestri. Il coordinamento nella preparazione di questo documento è affidato all’High-level group on gender mainstreaming, un gruppo informale composto dai responsabili per il gender mainstreaming a livello nazionale e presieduto dalla Commissione europea, che si riunisce due volte l’anno, una volta per ogni semestre di presidenza.

Il primo luglio è iniziata una nuova triade, composta dalla presidenza estone, da quella bulgara e, infine, da quella austriaca. La loro dichiarazione sulla parità tra uomini e donne contiene alcuni elementi rilevanti: innanzitutto, si ammette che il progresso verso tale parità ha, recentemente, subìto una battuta d’arresto, anche perché l’agenda politica non ha dato a questo tema sufficiente spazio. Inoltre, si critica la mancanza di una coerente implementazione del gender mainstreaming in tutte le politiche e le attività dell’Unione e nell’allocazione dei fondi. Sempre nel corso delle considerazioni iniziali, si sottolinea la persistenza della segregazione di genere nell’istruzione e nel mercato del lavoro e si dà ampio spazio ai problemi dell’iniqua ripartizione tra uomini e donne del lavoro domestico e di cura non retribuito e dello squilibrio di genere nell’utilizzo del congedo parentale, entrambi ostacoli nell’accesso delle donne al mercato del lavoro. È significativo che si faccia esplicita menzione del cambiamento tecnologico, il cui effetto sull’occupazione femminile potrebbe essere negativo o positivo anche a seconda delle politiche pubbliche che saranno proposte: per far sì che si realizzi la seconda opzione, è necessario un avvicinamento delle donne ai settori professionali che, verosimilmente, beneficeranno di questa rivoluzione, e quindi informatica, ingegneria, matematica, ad esempio. Infine, si parla ancora, purtroppo, di violenza di genere, che nel documento viene descritta come “causa e conseguenza delle disuguaglianze di genere” e come un fenomeno ancora profondamente presente nelle società europee.

Gli obiettivi comuni sono, dunque, ambiziosi e lodevoli: riportare la parità di genere nella lista di priorità dell’Ue; supportare una efficace e sistematica cooperazione tra gli stati membri e la Commissione europea sulla parità di genere e sulla politica di gender mainstreaming; rafforzare quest’ultimo in tutte le aree politiche, includendo una prospettiva di genere nei documenti politici; intensificare gli sforzi per raggiungere una pari indipendenza economica, soprattutto sostenendo discussioni sulla creazione di politiche adeguate per supportare una più equa condivisione dei carichi di cura; accelerare gli sforzi per eliminare la violenza di genere e affrontare l’impatto della digitalizzazione sulla parità di genere, soprattutto portando avanti discussioni su potenziali benefici e sfide.

Leggendo questa dichiarazione, è facile pensare che questo tema stia avendo, finalmente, l’attenzione che merita. In realtà, i contenuti non sono dissimili da quelli già espressi nella dichiarazione di Olanda-Slovacchia-Malta (gennaio 2016 - giugno 2017) e neanche da quelli enunciati nella dichiarazione di Italia-Lettonia-Lussemburgo (settembre 2014 - dicembre 2015). Eppure, i progressi in questo campo non sono stati molti, in questa legislatura: la proposta di direttiva per incentivare l’accesso delle donne ai consigli di amministrazione è bloccata in sede di Consiglio, nonostante le modifiche proposte durante il semestre di presidenza italiano e, recentemente, durante quello maltese, l’abbiano resa meno rigida lasciando un grande margine di flessibilità agli stati membri[1]. La proposta di direttiva per estendere il congedo di maternità da 14 a 18 settimane di cui 6 obbligatorie dopo il parto[2] è stata ritirata mentre la proposta di direttiva sul work-life balance, che è da accogliere, invece, come un’ottima notizia, sembra dovrà scontrarsi con l’opposizione ferrea di alcuni stati membri e soprattutto di gran parte delle associazioni di imprese europee, quindi sarà difficile che veda la luce entro questa legislatura. Si tratta di una proposta ambiziosa, che introduce 10 giorni di congedo di paternità (retribuito almeno quanto il congedo per malattia), la non trasferibilità del congedo parentale (4 mesi per ciascun genitore, retribuito almeno quanto il congedo per malattia, mentre nella normativa attuale non vi è alcuna indicazione sull’indennità), il congedo per la prestazione di assistenza – 5 giorni l’anno, per tutti i lavoratori che devono prendersi cura di parenti gravemente malati o non autosufficienti – e la flessibilità delle modalità di lavoro – per la prima volta, si nomina il diritto non solo alla flessibilità sugli orari ma anche sul posto di lavoro, il cosiddetto “smartworking”. Vale la pena ricordare, infine, che la Commissione europea non ha pubblicato una nuova Strategia per la parità di genere e i diritti delle donne 2016-2020 – la precedente copriva il periodo 2010-2015 – ma ha optato per un working document, un documento di lavoro di rango istituzionale inferiore; decisione fortemente criticata dal Parlamento Europeo, purtroppo senza risultati.

I limiti, dunque, sono molteplici. Il primo è che la politica sociale è ancora sostanzialmente in mano agli stati membri e questo lascia alle due istituzioni più propriamente “europee”, Commissione e Parlamento, poco margine di azione e pochissimi strumenti di coercizione.

Il secondo riguarda proprio gli stati membri: documenti come la dichiarazione di cui abbiamo parlato in questo articolo sono importanti solo nella misura in cui esplicitano obiettivi misurabili, ne definiscono i parametri, individuano sistemi di monitoraggio e, soprattutto, di sanzioni nel caso di inadempienza. Finché restano dichiarazioni di intenti, finché non vi sarà alcuna conseguenza se quegli intenti rimarranno tali senza tradursi mai in realtà, sarà sempre più difficile plaudere alle “buone intenzioni”.

Note

[1] Nella versione attuale, la proposta di direttiva richiede agli Stati di assicurare che le aziende quotate abbiano l’obiettivo di avere, entro dicembre 2022, almeno il 40% delle posizioni non esecutive dei consigli di amministrazione, cda, e il 33% di tutti i cda, incluse sia le posizioni esecutive sia quelle non esecutive, occupate dal genere meno rappresentato.

[2] Nella prima lettura il Parlamento aveva ulteriormente esteso il congedo a 20 settimane, introducendo anche la proposta di due settimane di congedo di paternità retribuito al 100%

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