La storia di Radislava Rady, da 15 anni in Italia, pioniera nel settore della pesca sostenibile, ora presidente di BioEmare, cooperativa di sole donne
Pioniere. Radislava Rady
e le pescatrici sostenibili

Quando è arrivata a Marina di Carrara, sulla costa tirrenica tra Versilia e Liguria, Radislava Rady, 42 anni, da 15 in Italia, era una delle tante ragazze straniere che i loro titoli di studio - nel suo caso di livello universitario - capiscono subito che è meglio dimenticarseli. Perché in Italia i titoli conseguiti all’estero non sono riconosciuti se non in rari casi di accordi bilaterali tra stati oppure perché, per farseli riconoscere, occorrono anni di assistenza legale, la consegna alle autorità italiane della documentazione di tutti i percorsi formativi compiuti in costosissime traduzioni giurate, il paziente superamento di labirintiche procedure burocratiche in un’infinità di passaggi tra ministeri, università, ambasciate. Neanche pensarci, dunque, a lavori coerenti con gli studi fatti, ma quando non c’è chi ti paghi un affitto e le spese quotidiane, la via obbligata passa dai lavori poco o niente richiesti dagli italiani, le collaborazioni domestiche, i lavori di pulizia, la 'badante' in casa d’altri. Ma è una sopravvivenza che non può giustificare la scelta di espatriare, e Rady sa guardarsi intorno, è interessata ai lavori del mare, coglie appena possibile l’occasione di un impiego da contabile in una delle cooperative di pescatori della città.
Da lì osserva, capisce, si documenta, progetta. E presto va in mare anche lei, come pescatrice sulle paranze che escono ogni mattina all’alba. Lavoro faticoso, anch’esso tra quelli sempre meno amati dai giovani italiani, e per di più afflitto da una tradizione sessista antica, quella diffusa in tutto il Mediterraneo secondo cui si sa che le donne in mare “portano sfortuna”. Dei pregiudizi e delle ostilità che ha certamente incontrato all’inizio della sua nuova attività, Rady parla pochissimo, e solo con la pacata ironia di chi ha ormai vinto la sua partita, preferisce raccontare che la sua passione per il mare viene da una nonna vissuta sul Mar Nero, capace di trattare il pesce con la cura che si deve a un alimento di qualità e di cucinarlo come si deve.
Le ricette, gli odori e i sapori dell’infanzia, le tradizioni di un paese che resta un fattore identitario. Ce n’è abbastanza per spiegare i perchè di una direzione inversa a quella dei normali percorsi di carriera, in cui è rarissimo che si lascino le comodità dei lavori in ufficio per attività di tipo manuale. Non è la sola ragazza straniera, del resto, che a Marina di Carrara frequenta le paranze, ce ne sono altre che sfidano gli orari impossibili, le incertezze del tempo, il freddo e l’umidità delle notti invernali, le levatacce. Insieme osservano, analizzano, progettano. Capiscono che ci sono buoni spazi di sviluppo economico e professionale.
La pesca che si fa di solito, non rispetta abbastanza il mare e le sue regole, ne mette anzi a rischio gli equilibri naturali. In troppi casi le reti a maglie strette compromettono le fasi naturali della riproduzione ittica, in troppi casi una parte del pescato viene ributtato in mare perché i pescatori non hanno la pazienza per sfilarlo dalle maglie senza danneggiarlo, in troppi casi c’è un invenduto che si butta, e di solito per non perdere tempo finisce di nuovo in mare anche la plastica che arriva in paranza. Si consuma troppo gasolio con quelle reti così pesanti, e si compensano i costi con prezzi alla vendita troppo alti. Intuito femminile, sensibilità ambientalista, tradizioni di maggiore armonia tra umano e natura, un’idea di produzione lontana dalla subordinazione ai valori del solo profitto, il legame tra produzione e riproduzione tipico dell’esperienza di vita delle donne?
Mettersi in proprio è un’idea che si fa strada poco alla volta, inizialmente per scherzo e poi con sempre maggiore convinzione, e in poco tempo nasce il progetto di una cooperativa di sole donne, attenta alle compatibilità ambientali e in grado di presidiare l’intera filiera produttiva: dalla pesca alla preparazione del pesce per la vendita, con la convinzione, che si rivelerà vincente, che niente deve andare sprecato e che quello che non si può vendere deve essere immediatamente trasformato in sughi, creme, salamoie, conserve. Che la pesca non può essere devastazione e che deve essere sostenibile, che tra produzione e consumo dev’esserci poca distanza, e poco tempo.
Oggi la cooperativa BioEmare, di cui Rady è presidente, è un’impresa di successo. Con un fatturato di tutto rispetto, un’ottima fama tra gli appassionati della pesca e dell’alimentazione biosostenibile, due pescherie aperte in zona, una clientela in crescita anche nell’entroterra, fino a Parma e a Torino. Un’impresa 'in rosa', nove donne quasi tutte straniere, tra cui colombiane e polacche. Tra cui una laureata in antropologia criminale, ma qui i delitti da sventare sono quelli contro la natura. Il successo significa anche il prestigioso premio “Marisa Bellisario” dedicato all’imprenditorialità femminile, un insieme di rapporti con le associazioni locali e nazionali per la pesca e con il mondo della ricerca biologica, importanti progetti di sviluppo di livello internazionale, persino docenze universitarie. Non basta, Rady in mare continua ad andarci regolarmente, perché le piace e perché solo con un anno di imbarco si può conseguire il titolo professionale di comandante, quindi liberarsi dai rapporti di dipendenza dalle cooperative tradizionali, quindi disporre prima o poi di barche proprie.
Non finirebbe mai di parlare, la presidente Rady, dei dettagli delle attività della sua “ciurma in rosa”. Del talento naturale nella sfilettatura del pesce di una delle sue socie, del recupero delle migliori ricette dei paesi di provenienza, di come la plastica e i rifiuti che finiscono nelle reti vengono portati a terra per essere scaricati nella differenziata, del risparmio di gasolio con le reti a maglie larghe che non intrappolano i pesci appena nati. Esperienza, professionalità, organizzazione. Ma le parti più importanti del suo racconto sono quelle dedicate al progressivo passaggio dalla diffidenza alla solidarietà delle cooperative tradizionali, che hanno finito coll’apprezzare l’innovazione portata nel loro settore dalle strane ragazze straniere della nuova cooperativa. E quelle dedicate alla ricerca di una clientela speciale, i gruppi di acquisto solidale – i G.A.S – che il pesce lo vogliono non solo fresco ma pulito, sfilettato, e già porzionato anche in vaschette per consumi da single. Perché un’offerta nuova – è il marketing, bellezza – richiede, per avere successo, di favorire anche l’emergere di una domanda consapevole e di nuove sintonie tra produttori e consumatori. Per saperne di più, comunque, ci sono i siti specializzati. La cooperativa di sole donne di Marina di Carrara sta facendo scuola.
Scuola non solo di imprenditorialità. Anche di comprensione delle tante diverse facce dell’immigrazione. E di quello che bisogna fare non solo per aiutarla a crescere ma anche per farci aiutare dalla sua crescita. Di storie così, del resto, ce ne sono tante. Anche se dell’immigrazione i media raccontano soprattutto altro, per chi vuole capire ci sono i dati degli osservatori economici. Da una recentissima rilevazione di Unioncamere – e dalle ricerche della Fondazione Moressa – appare evidente il contributo all’economia italiana delle imprese straniere. In espansione nonostante la crisi, e in controtendenza negli ultimi anni rispetto a quelle a titolarità italiana. Nel 2014 le sole imprese individuali intestate a stranieri sono cresciute del 7,3% rispetto al 2013, mentre sono diminuite del 3,8% quelle intestate a italiani, e sono il 10% del totale di questa tipologia di imprese. Stesso trend nelle cooperative che associano lavoro straniero, in particolare nei comparti dei servizi alle imprese, del commercio, delle costruzioni. La somma delle imprese individuali e delle società di capitali dice che la consistenza delle imprese straniere è arrivata ormai a più di 500mila. Un buon contributo all’economia italiana. Una buona notizia per chi non guardi solo alle multinazionali e al ruolo sempre più incisivo, e spesso inquietante, di capitali stranieri nell’industria italiana. Ma c’è dell’altro, perché è anche da qui che passa la difficile integrazione sociale e culturale dell’immigrazione. Delle prime e delle seconde generazioni.
La storia di Rady e delle sue amiche potrebbe insegnare tante cose. Anche alla politica che specula sulla paura delle invasioni, anche a quella che preferisce non affrontare i temi che dividono.
Articolo pubblicato su Rocca del 15 Giugno