Politiche

Linee guida e clausole di condizionalità, cosa possiamo aspettarci dagli strumenti di ripresa in termini di riequilibrio di genere nelle assunzioni? Una simulazione a partire dai numeri

Quanto la ripresa
premierà la parità

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Foto: Unsplash/ Simone Hutsch

Senza suscitare troppo clamore lo scorso dicembre l’occupazione femminile ha superato in un sol colpo la soglia del 50 per cento e il livello pre-covid, mentre il rimbalzo non è ancora completo per l’occupazione maschile. Il tasso di occupazione di riferimento – donne dai 15 ai 64 anni – si è infatti attestato al 50,5 percento, qualche decimale in più del valore di dicembre 2019, e soprattutto della media 2019. Una doppia buona notizia?

Buona una prima volta perché non smentisce la promessa del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) di dare un impulso più forte al lavoro delle donne? Buona una seconda volta perché la crescita del 2021 è avvenuta ancor prima che fossero introdotte le clausole ‘preferenziali’ previste dal Pnrr nonché dal Piano nazionale per gli investimenti complementari al piano di ripresa (Pnc)?[1] Dette clausole sono state  infatti  ufficialmente decretate il 3 dicembre 2021, col preciso obiettivo di ampliare ulteriormente le prospettive occupazionali per le donne a partire dall’anno in corso.

Naturalmente non mancano i motivi per frenare facili entusiasmi, a partire dalle incertezze che gravano sulla crescita di quest’anno e dalla qualità dell’occupazione che si sta creando – i rapporti a termine continuano a farla da padrone. In questa sede, però, voglio focalizzare l’attenzione sulla prevedibile efficacia delle clausole, e in particolare di quella clausola di condizionalità finalizzata a garantire alle donne e ai giovani una quota minima del 30 percento delle nuove assunzioni effettuate da imprese che si aggiudichino appalti o concessioni nell’ambito del Pnrr o del Pnc.

Le linee guida decretate lo scorso dicembre  non solo codificano le clausole nel dettaglio ma le corredano di esempi per ridurre l’ambiguità di una griglia piuttosto complessa di criteri ‘preferenziali’ che si intersecano combinando variamente i pesi da attribuire a giovani, donne, lavoratori meridionali e lavoratori con disabilità. Vi si chiarisce che la riserva minima del 30 percento delle assunzioni “necessarie per l’esecuzione del contratto o per la realizzazione di attività a esso connesso e strumentali” vale separatamente per donne e giovani, ma prevede deroghe in entrambi i casi. La deroga di genere è ammessa in presenza di un “tasso di occupazione femminile nel settore ATECO 2 digit di riferimento inferiore al 25%” e prevede “l’assunzione di una percentuale di donne superiore di 5 punti percentuali al tasso di occupazione femminile registrato a livello nazionale nel settore ATECO 2 digit di riferimento”.[2]

Conviene affidare ai numeri il compito di far chiarezza su cosa comportino sia la clausola del 30 percento che la relativa deroga. Ma ancora prima di affrontare i numeri devo segnalare un errore nel testo delle linee guida, anche a rischio di apparire petulante. Un ‘tasso di occupazione’ per settore ATECO 2 digit è un non senso poiché il denominatore di questo indicatore è l’intera popolazione femminile 15-64 che non può, evidentemente, essere attribuita a questo o a quel settore in modo arbitrario. L’indicatore a cui si fa riferimento è invece il ‘tasso di femminilizzazione’, ovvero la percentuale di donne occupate sul totale degli occupati in quel settore.

Sgombrato il campo da questo errore, guardiamo ai numeri. Lo farò con l’ausilio di un esercizio di simulazione che, per quanto grossolano, serve a chiarire gli ordini di grandezza in gioco. Supponiamo cioè che le assunzioni aggiuntive mobilitate da Pnrr e Pnc in ognuno dei settori ATECO a bassa femminilizzazione (inferiore al 25 per cento) ammontino da qui al 2026 al 10 per cento dell’occupazione registrata in media dal settore nell’anno pre-covid, il 2019.[3] Con questa ipotesi, la simulazione che mi appresto a fare è probabilmente per eccesso, non per difetto. Se, infatti, estendessimo all’intera economia l’aspettativa di una espansione occupazionale in conto Pnrr+Pnc  pari al 10 per cento del livello registrato nel 2019, i posti aggiuntivi ammonterebbero a 2 milioni e 300 mila unità da qui al 2026: parecchi in più di quelli che Unioncamere-Anpal stimano per i prossimi cinque anni collocandoli in una forbice tra 1,3 e 1,7 milioni di lavoratori.

Attenendoci all’ipotesi del 10 per cento è possibile porre a confronto l’ammontare di occupazione femminile aggiuntiva in due scenari alternativi.

Scenario 1: in ognuno di questi settori le imprese appaltanti o concessionarie derogano alla clausola del 30 per cento, come previsto dalle linee guida, ma garantiscono un tasso di femminilizzazione superiore di 5 punti a quello medio nazionale nel settore, così come richiesto dalla deroga.

Scenario 2: in ognuno di questi settori le imprese appaltanti o concessionarie assicurano una rappresentazione femminile nelle nuove assunzioni pari al 30 per cento.

Nel primo scenario l’aumento di occupazione femminile imputabile alle sole linee guida sarebbe pari a circa 30 mila unità. Dove ‘imputabile alle sole linee guida’ va inteso come l’effetto differenziale dovuto all’aumento di 5 punti percentuali del tasso di femminilizzazione nel settore.[4]

Il risultato è quindi assai contenuto in questo caso, ma ciò che forse sorprende è un esito complessivamente modesto anche nel secondo scenario: il pieno rispetto della clausola del 30% (nei medesimi settori) comporterebbe circa 91 mila unità aggiuntive per le donne in conto clausola.[5]

Dunque, l’esercizio è grossolano ma le implicazioni che se ne possono trarre sono chiare e non vanno sottovalutate.  

Primo, i risultati di una clausola condizionale del 30 per cento sarebbero stati contenuti anche se questa fosse stata pienamente rispettata. Ciò contrasta con le aspettative salvifiche che non di rado sono state associate a questa misura. Non molti giorni fa, il 9 di febbraio per la precisione, in occasione dell’audizione del ministro Orlando alle commissioni riunite del lavoro e degli affari sociali, lo stesso ministro ha fatto riferimento alla clausola del 30 per cento come “punto [che considero] qualificante per la messa a terra dell’intero Pnrr”, tanto da ventilarne la possibile estensione a tutti i contratti siglati dalla pubblica amministrazione.

Secondo, i motivi della deroga che le linee guida hanno introdotto riflettono alcune difficoltà oggettive. In presenza di tempi di realizzazione compressi e di realtà settoriali molto diversificate dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro, della formazione e della disponibilità locale di forza lavoro, una ‘quota trasversale’ uniforme quale il 30 per cento può cozzare contro strozzature dell’offerta (femminile). La deroga può essere criticata perché ‘diluisce’ l’obiettivo del 30 per cento ma ha il merito di modularlo, quantomeno in relazione al settore.  

La discussione e l’elaborazione politica che hanno prodotto linee guida e clausole di condizionalità hanno avuto il merito di affrontare il nodo di una distribuzione fortemente sbilanciata di donne e uomini fra i diversi settori – la cosiddetta segregazione occupazionale  nodo che è venuto prepotentemente al pettine quando la strategia europea ha assegnato priorità e risorse ad attività quali la transizione energetica e la digitalizzazione a forte prevalenza di capitale e forza lavoro maschile.

Non possiamo certo permetterci di ignorare questo nodo, ma se hanno senso le riflessioni che ho appena fatto, dobbiamo chiederci fino a dove ci possano condurre gli strumenti che stiamo sperimentando, e a quali costi. Adattando un celebre aforisma di Einstein, una volta accettati i limiti, possiamo pensare di superarli.

Note

[1] Il Pnc è finanziato con risorse nazionali (per un totale di 30.622,46 milioni di euro per gli anni 2021-2026) e ha l’obiettivo di integrare e potenziare i contenuti del Pnrr.

[2] ATECO è la codifica adottata dall’Istat per classificare i diversi settori. Il numero dei digit (cifre del codice assegnato a ogni settore) indica il grado di disaggregazione della classificazione.

[3] L’esercizio è stato condotto sulla serie dell’occupazione Eurostat disaggregata per settori a 2 cifre e disponibile online (LFSA_EGAN22D: la classificazione utilizzata dall’Eurostat – NACE rev.2 - è quella usata per derivare la classificazione ATECO). La scelta del 2019 è praticamente obbligata poiché i dati disaggregati per settore sono disponibili per il 2020 non per il 2021, ma l’uso del 2020 comporterebbe distorsioni dovuti all’effetto lockdown sulla struttura produttiva. Una seconda ragione, in positivo, è che il ‘rimbalzo’ ci ha appena portato verso i livelli pre-covid (al netto di differenze che riteniamo trascurabili per questo esercizio).

[4] Per chiarire ulteriormente, ‘l’effetto differenziale’ è ottenuto come differenza fra una crescita dell’occupazione femminile nel settore che lasci il tasso di femminilizzazione di partenza immutato e una crescita con incremento di 5 punti percentuali del medesimo tasso.

[5] Per poter effettuare un confronto ‘pulito’ fra i due scenari non ho incluso nel calcolo i settori con tasso di femminilizzazione dal 25 al 30% per i quali vale pienamente la clausola del 30% (3 in tutto secondo i dati Eurostat, mentre i settori con tasso di femminilizzazione inferiore al 25% sono 28). Includendo anche questi tre settori l’occupazione femminile aggiuntiva ammonterebbe a  32 mila unità nel primo scenario e circa 93 mila nel secondo. Rimando al dettaglio dei calcoli per una più approfondita comprensione della simulazione.