Raffaella Accroglianò lavora da anni con migranti e richiedenti asilo. Ci racconta come arriva sulle nostre coste chi è sopravvissuto al deserto e alle persecuzioni
Raffaella Accroglianò, lo sbarco
non è il luogo delle ragioni

Raffaella Accroglianò, dopo gli studi in scienze politiche, da anni lavora con i richiedenti asilo in forme e modi differenti. Ha insegnato italiano agli stranieri, è stata in Argentina per aprire una rete di scambio di buone prassi legate al sociale e alla salute mentale, ha gestito un progetto in Serbia sui rifugiati della ex-Jugoslavia, è stata in Kosovo, Albania e per diversi anni si è occupata di ricerca fondi e progettazione. Le tematiche sulle quali ha lavorato sono state principalmente la salute mentale, le migrazione e i minori. "La marginalità e la vulnerabilità sono sempre state per me luoghi da esplorare. Ho sempre pensato che tutti gli esseri umani dovrebbero avere le stesse opportunità" ci racconta. L'abbiamo intervistata.
Come hai deciso di lavorare con le persone migranti e com'è cambiato il tuo lavoro nel corso degli anni?
Il lavoro con i migranti, per quanto mi riguarda, s’inserisce in un più ampio contesto di lavoro con soggetti vulnerabili. Non è stata una vera e propria scelta, quanto più che altro un’occasione, un’opportunità che la vita mi ha offerto. Nello specifico, durante gli anni universitari frequentai come volontaria il carcere minorile Casal del Marmo di Roma. Quello fu il mio primo incontro reale con la marginalità e la vulnerabilità. I ragazzi che si trovavano lì erano italiani, rom ma anche marocchini, tunisini. Molti anni dopo sono stata in Serbia per un anno, dove ho coordinato un progetto che prevedeva la creazione di misure abitative alternative per i rifugiati serbi provenienti dalla Croazia e dalla Bosnia Erzegovina e gli sfollati del Kosovo. Quindi, un po’ stanca di logiche che non mi appartenevano, decisi di dedicarmi all’insegnamento della lingua italiana come lingua straniera. All’epoca erano poche le realtà che avevano una chiara consapevolezza del fatto che l’insegnamento della lingua indirizzato ai migranti, dal punto di vista didattico e dei contenuti, doveva necessariamente essere altro rispetto a quanto pensato dalle scuole di lingua. Questo perché la varietà dei contesti culturali è talmente ampia e i livelli culturali così diversi da rappresentare una vera e propria sfida. In quegli anni ebbi la fortuna di lavorare a un progetto rivolto a donne migranti. Donne forti dalle quali ho appreso molto. Da più di cinque anni, oramai, lavoro nel mondo della migrazione, con responsabilità e in ambiti diversi che sono però parte della stessa realtà. Ho gestito centri d’accoglienza, visitato centri d’accoglienza di diversa grandezza e gli ex centri di identificazione ed espulsione (Cie) gli attuali centri di permanenza per i rimpatri (Cpr), lavorato agli sbarchi e in attività di supporto istituzionale.
Lo sbarco è un momento delicatissimo nel viaggio di migrazione, perché rappresenta il primo luogo dell'incontro con il paese di destinazione. Cosa significa arrivare sulle coste italiane a bordo di un barcone e quali sono le ragioni principali che al momento dell'arrivo vengono riportate?
Finché io ho lavorato agli sbarchi, la Capitaneria di Porto coordinava le operazioni di Sar (Search and rescue) di imbarcazioni intercettate in acque internazionali, subito fuori dalle acque libiche. I principali attori erano le Ong e le navi di Frontex o militari, di diversi paesi europei. Rari e numericamente non rilevanti erano gli arrivi spontanei sulle coste italiane di barche (spesso barche a vela) di migranti partiti, nella maggior parte dei casi, da coste diverse da quelle libiche. Lo sbarco è un momento di grande sollievo per coloro che, dopo essere stati magari mesi nelle prigioni libiche, dopo aver visto e subito delle atrocità, dopo aver rischiato la vita in mare, si ritrovano a calpestare nuovamente la terra ferma. Le esigenze immediate sono quelle primarie: il cibo, l’acqua, potersi lavare. Una volta un ragazzo mi chiese uno spazzolino, era una settimana che non si lavava i denti e non desiderava altro. Il momento dello sbarco è raramente il luogo delle ragioni di tale movimento. Le persone sono stanche e vorrebbero solo riposare. Anche se poi accade, nelle ore morte dell’attesa al porto, che qualcuno decida di raccontarti la sua storia e con parole, semplici e dirette, ti sviscera l’orrore. Un bambino di 9 anni arrivato da solo, che ti mostra le cicatrici delle bruciature di sigaretta dei suoi aguzzini sudanesi, che per otto lunghi mesi lo hanno tenuto rinchiuso nell’attesa di ricevere dei soldi. Un bambino che ha forse negli occhi e sulla pelle già tutto per essere adulto, tranne l’età anagrafica. Un signore che inizia a raccontarti dei centri di detenzione in Libia, delle persone che ha visto morire, dei corpi lasciati a imputridire nel deserto. Un cimitero all’aperto, lo ha definito. O un altro, che ti racconta con lo sguardo perso, che vuole solo ritrovare sua moglie, dalla quale è stato separato nel deserto, dove i predoni hanno sparato a sangue freddo in faccia al suo bambino di 3 anni.
Quanto sappiamo davvero della vita di queste persone?
Forse sappiamo qualcosa delle persone che affogano nel Mediterraneo, ma non sappiamo certamente nulla di quelle che non ce la fanno ad attraversare il deserto, dove vengono sequestrate, picchiate, violentate in continuazione, come un in un brutto film dell’orrore dal quale non si riesce a venire fuori. Una specie di loop senza fine. E poi la Libia. Le persone arrivavano, specie dopo l’accordo con la Libia (quello del precedente governo), con la pelle deturpata e scavata dalla scabbia. Denutrite come se avessero attraversato un campo di concentramento. L’accoglienza ai porti varia, a seconda delle città in termini di efficienza, qualità e direi anche di umanità dimostrata dagli operatori e dalle operatrici delle varie organizzazioni che fanno il loro pezzettino di lavoro.
Cosa succede nell'immediato?
Le cure mediche sono le prime a essere espletate, le emergenze vengono mandate al pronto soccorso, alcune persone stabilizzate al porto nelle tende mediche e gli scabbiati separati dagli altri e trattati. Poi inizia la lunga, a volte lunghissima, procedura dell’identificazione. La polizia, dopo aver assegnato loro un numero, raccoglie i loro dati anagrafici e poi li fotosegnala, ovvero ne prende le impronte. I più fortunati, in seguito, vengono trasferiti nei centri di accoglienza e inseriti nel sistema di protezione, ovvero considerati richiedenti asilo di default, mentre gli altri si vedono recapitare un foglio di via e sette giorni per lasciare il territorio dello stato. No, lo sbarco non è certamente il luogo delle ragioni, quanto quello della cura e dell’assistenza. Almeno sulla carta.
Nella realtà, invece, cosa accade subito dopo? Come funzionano i centri d'accoglienza e per quanto tempo ci si rimane?
Attualmente, in base alla legge, in Italia ci sono i centri di prima accoglienza (gli ex Cara), i centri temporanei (così detti Cas) e infine i centri del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (cosiddetti Sprar). In teoria nei primi, i richiedenti asilo dovrebbero rimanere “il tempo necessario all’espletamento delle operazioni di identificazione, ove non completate precedentemente, alla verbalizzazione della domanda ed all’avvio della procedura di esame della medesima domanda, nonché all’accertamento delle condizioni di salute diretto anche a verificare, fin dal momento dell’ingresso nelle strutture di accoglienza, la sussistenza di situazioni di vulnerabilità”. I secondi, sono attivati, sempre in teoria, in caso di emergenze numeriche “arrivi consistenti e ravvicinati”, e l’accoglienza presso queste strutture “è limitata al tempo strettamente necessario al trasferimento del richiedente nelle strutture di prima accoglienza o nei centri Sprar”. Infine, “il richiedente che ha formalizzato la domanda e che risulta privo di mezzi sufficienti a garantire una qualità di vita adeguata per il sostentamento proprio e dei propri familiari, ha accesso, con i familiari, alle misure di accoglienza del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati predisposte dagli enti locali”. Di fatto i centri temporanei sono divenuti i principali raccoglitori di richiedenti asilo, con servizi spesso molto poveri e personale poco qualificato. Il lavoro sull’integrazione poi è delegato per lo più agli Sprar, che però non riescono a garantire una seconda accoglienza a tutti. La permanenza varia a seconda delle circostanze, ma diciamo che in media è di un anno e mezzo o due.
Secondo te cosa serve ancora per garantire alle persone che arrivano di continuare il processo migratorio nella legalità?
Direi che solo la libera circolazione delle persone, indipendentemente dal colore del passaporto, può garantire un processo migratorio non solo legale ma anche nel pieno rispetto della dignità.
Nel tuo percorso, professionale e umano, cosa ha rappresentato dirigere un centro d'accoglienza?
Non è facile per me rispondere a questa domanda. Gestire un centro d’accoglienza ha avuto un peso enorme sulla mia conoscenza del fenomeno. Un peso enorme perché mi ha permesso di partire dalle persone, dalle loro storie. Le mie esperienze successive sono state come un allargare la visuale, come una macchina da presa che da un particolare allarga l’immagine. Il mio agire quotidiano è sempre stato guidato dall’imperativo categorico del rispetto della dignità di ogni singolo individuo. Il mio principale obiettivo, come direttrice di un centro in cui erano ospitate persone provenienti da culture e mondi molto diversi fra loro, era arrivare a fine giornata senza troppi conflitti. O, com’è accaduto quasi sempre, senza conflitti in assoluto. Non sono mancate liti, risse e gesti eclatanti. Non sono mancate persone che mi hanno attribuito tutte le responsabilità delle loro frustrazioni, per una data di Commissione troppo lontana o per un ritardo nel trasferimento. Non sono mancati conflitti con i colleghi o decisioni difficili da prendere, tenendo a mente la responsabilità verso gli ospiti e in generale la tutela delle persone. Sotto il profilo meramente professionale ha rappresentato un grande momento di crescita e consapevolezza rispetto al sistema d’accoglienza, alle sue regole, alle sue mancanze ma anche alle sue infinte possibilità. Sotto il profilo personale, invece, questa esperienza ha aperto molte riflessioni e domande. Non tutte ancora concluse o con una risposta.
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