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Se ne parla sempre in termini di spesa e mai come misura di contrasto alla povertà, che avanza sempre più anche tra i lavoratori. Ancor meno si tiene in considerazione il potenziale di emancipazione, in particolare per le donne. Un'analisi delle proposte in campo

Reddito minimo,
costi e benefici

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La crisi economica che ha colpito le economie occidentali ha messo in luce alcuni aspetti fondamentali: in primo luogo il fenomeno della disoccupazione si è profondamente aggravato e rappresenta ormai un dato strutturale che interessa una percentuale rilevante di lavoratori; in secondo luogo il rischio di scendere al di sotto della soglia di povertà non è più un problema che riguarda solo alcune specifiche categorie più fragili (anziani, disabili o membri di famiglie numerose) e tra coloro che non riescono a trovare un lavoro, ma è diventata una condizione crescente tra i lavoratori, soprattutto quelli maggiormente precari, con rapporti di lavoro discontinui.

Per questo motivo, il dibattito intorno all’introduzione del reddito minimo in Italia, da sempre controverso, si è riacceso negli ultimi due anni con la presentazione in parlamento di tre proposte di legge: una del Partito Democratico, una del Movimento 5 Stelle ed una di Sinistra Ecologia e Libertà (le prime due sono proposte di legge d’iniziativa parlamentare, l’ultima, invece, è una proposta di legge d’iniziativa popolare, che ha raccolto oltre 50.000 firme di cittadini (per i testi delle tre proposte si veda la nota 1). Si tratta di misure di reddito minimo che hanno al centro l'obiettivo del contrasto alla povertà ed all'esclusione sociale, benché si tenti di delineare un allargamento a soggetti espulsi o sospesi temporaneamente dal mercato del lavoro, nonché precari.

Nei tre testi di legge l’entità della misura di sostegno risulta molto simile (l'importo massimo annuo è compreso fra i 6.000 e i 7.200 euro), mentre si riscontrano differenze maggiori nei criteri dei accesso per risultare beneficiari (tabella 1). Innanzitutto il testo di legge del M5S non prevede restrizioni legate alla condizione lavorativa dei beneficiari potenziali, dal momento che, a differenza delle altre due proposte, in esso non si fa accenno a situazioni di disoccupazione, precarietà inattività; di conseguenza, la prosposta del M5S prevede un criterio di accesso più ampio, legato esclusivamente alla cittadinanza e alla necessità di possedere un titolo di studio riconosciuto dall’UE. Differenze si riscontrano anche per quanto riguarda i criteri monetari di accesso alla misura: nella proposta del Pd l'accesso è infatti basato sull'Isee (ci si basa, dunque, su una misura di reddito e patrimonio definita su scala familiare), in quella di Sel sulreddito personale imponibile, in quella del M5S sul reddito netto annuo.

Tab. 1: Principali elementi dei  tre disegni di legge

A queste tre proposte si aggiunge quella presentata il 14 ottobre 2014 dal  gruppo di lavoro “Reddito d'inclusione sociale”, coordinato da Cristiano Gori e sostenuta dall’Alleanza contro la povertà in Italia, un cartello di soggetti  aventi come promotori le Acli e la Caritas che ha come obiettivo l’introduzione del Reddito di inclusione sociale (Reis). La proposta nasce con l'obiettivo di combattere la povertà assoluta, poiché assume come destinatari della misura i nuclei familiari al di sotto della soglia di povertà assoluta. Oltre a porre l'accento sulla titolarità non individuale ma familiare del diritto al reddito, si basa  sul cosidetto “patto d’inserimento” (sociale o lavorativo), che i beneficiari sono tenuti a rispettare, pena l'introduzione di sanzioni anche aspre. Si sottolinea infatti una condizionalità reciproca tra utente e amministrazione pubblica, in base alla quale l'utente deve fare ogni sforzo per migliorare la sua situazione e, contemporaneamente, l'amministrazione deve assicurargli gli strumenti in questa direzione. Questa proposta pone dunque più l'accento su un'idea di welfare di natura assistenziale e meno su un'idea di autodeterminazione e indipendenza legata alla titolarità individuale del diritto al reddito, pur esserendo a livello quantitativo d'impianto simile alle proposte presentate da Pd, M5S e Sel, benché siano meno precisati i criteri di accesso.

Sebbene spesso il dibattito intorno al reddito minimo si concentri esclusivamente sui costi della misura, sarebbe utile anche un’analisi dell’impatto che il reddito avrebbe sulla povertà e la diseguaglianza in Italia, tenendo conto che, secondo l’Istat, nel 2013 il 12,6% delle famiglie italiane era al di sotto della soglia di povertà relativa e il 7,9% al di sotto della soglia di povertà assoluta. L’approvazione di una misura di reddito minimo permetterebbe di riportare le famiglie al di sopra delle soglie di povertà, perlomeno di quella assoluta.

Secondo una simulazione condotta utilizzando i dati della Banca d’Italia su “I bilanci delle famiglie italiane 2010”, è possibile notare che, introducendo in Italia uno schema di reddito minimo, l’indice di diseguaglianza di Gini (che varia da 0 ad 1 e si riduce se il trasferimento di reddito avviene dal più ricco al più povero) passerebbe da un valore  di 0,331 (situazione italiana al 2010) ad un valore di 0,328, una riduzione non irrilevante per un paese diseguale come il nostro. Ovviamente l’impatto di ogni misura di reddito minimo dipende da come essa viene formulata. Proprio rispetto alla formulazione delle singole proposte è possibile fare alcune considerazioni, che nascono dalla necessità di rendere le diverse misure più precise in modo da definirne meglio la platea dei potenziali beneficiari e quindi, di conseguenza, le stime di costo.

Per procedere a simulazioni più accurate andrebbero chiariti alcuni aspetti poco dettagliati all'interno dei progetti di legge. Sarebbero ad esempio necessarie una definizione più precisa delle condizioni patrimoniali, aggiuntiva ai criteri reddituali (elementi fondamentali che mancano completamente nei testi di legge di Sel e del M5S e che sono, invece, compresi nell’indice Isee nella proposta Pd) e maggiori dettagli riguardo la  subordinazione dell’accesso al beneficio a particolari percorsi di formazione e di politiche attive del lavoro (elemento assente nel testo di legge del M5S).

Per quanto riguarda i costi delle misure essi si aggirerebbero tra i 1,9 e gli 8 miliardi di euro l'anno (2). Si consideri però che le stime di costo andrebbero riviste al rialzo in caso di introduzione di soglie di deducibilità per i redditi da lavoro, o di soglie di deducibilità delle spese per l’affitto o per il pagamento di mutui sull'abitazione di residenza. Andrebbe poi chiarito come il reddito minimo si assocerebbe, o verrebbe a concorrere, al finanziamento da parte delle regioni di alcuni strumenti di reddito indiretto (accesso ai trasporti, ai servizi culturali, sostegno all’affitto, ecc.). Se l'erogazione non venisse considerata come integrazione di reddito fino al raggiungimento della soglia considerata “minimo garantito”, ma bensì dovesse essere erogata a tutti coloro al di sotto della soglia prevista i costi si aggirerebbero intorno ai 20 miliardi di euro annui.

È importante sottolineare come questi costi, che di per sé potrebbero sembrare esorbitante, potrebbero essere coperti attraverso la rimodulazione dei capitoli di spesa pubblica (riduzione delle spese militari, riduzione del finanziamento alle grandi opere ecc..), o pensando misure come l'introduzione di un'imposta a somma fissa per tutti coloro aventi un reddito appartenente al decile più alto, attraverso una policy redistributiva.

Analizzando la platea dei potenziali beneficiari dei tre disegni di legge è possibile evidenziare che queste misure favorirebbero i nuclei con capofamiglia donna (3), principalmente nel Mezzogiorno, con un impatto estremamente positivo sulla riduzione delle diseguaglianze di genere e territoriali, favorendo una maggiore conciliazione dei tempi di lavoro e tempi di vita, ovviamente ancor di più laddove il reddito minimo venisse affiancato da misure di welfare specifiche rivolte alla maternità ed al cosìdetto “lavoro di cura”, molto spesso a carico delle stesse donne.

Va evidenziato che le proposte di legge non chiariscono del tutto gli aspetti legati alla “titolarità individuale” del diritto al reddito minimo, ovvero non chiariscono se esso vada erogato su base individuale o con riferumento al nucleo familiare. Se la misura fosse stabilita mediante criteri, almeno in parte, legati alla titolarità individuale si favorirebbe il carattere emancipante delle misure universali, ovvero la possibilità per ciascun individuo, a maggior ragione per le donne, di poter effettuare scelte in totale autonomia dai vincoli di natura familiare.

Nonostante siano state presentate tre proposte di legge sul reddito minimo e diverse realtà sociali continuiano a sostenere campagne e proposte sul tema, nessuna di esse è stata ancora discussa in parlamento, né c'è stato un confronto tra le diverse forze politiche sui criteri e le modalità di accesso di ciascuna proposta. Ancora una volta l’introduzione di un reddito minimo si colloca fuori l’agenda politica del nostro paese e non riesce a sfondare il muro del semplice dibattito di propaganda per sostanziarsi nell’approvazione di un disegno di legge.

 

Note

(1) Testo della proposta del Partito Democratico  http://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0005360.pdf . Testo della proposta di Sinistra Ecologia e Libertà: http://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0012040.pdf ; Testo della proposta del Movimento Cinque Stelle: http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=Emendc&leg=17&i…

(2) Considerando una potenziale platea di beneficiari di 20 milioni di famiglie 1,9 miliardi di euro = costo annuo della proposta del Pd, 2,9 miliardi di euro = costo annuo della proposta di Sel, 8 miliardi di euro= costo della proposta del M5S

(3) Il capofamiglia viene identificato con il componente del nucleo con il reddito personale più alto. Si noti che, secondo l’Istat, nel 2012 rispetto al periodo precedente il numero di donne occupare è cresciuto di 61.000 unità e, fra queste, 50.000 avevano un marito o un partner disoccupato o inoccupato.