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Inchiesta - "I consultori non sono falliti, sono stati boicotatti". Michele Grandolfo, esperto e memoria storica dei consultori italiani, punta il dito contro interessi economici e sprechi sanitari, attorno alla salute della donna. E per il futuro propone: non dobbiamo aspettare che le persone arrivino nelle strutture pubbliche, ma andarle a cercare

Riaprire i consultori
per tagliare gli sprechi

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«Gli interessi economici in gioco sono fortissimi, per questo i consultori sono stati boicottati». Michele Grandolfo conosce molto bene problemi e punti di forza dei presidi che ha contribuito ha progettare e monitorare, per esempio è sua l'idea e la stesura Pomi, il progetto obiettivo materno-infantile. Epidemiologo, già dirigente di ricerca dell’Istituto superiore di sanità e direttore del reparto di salute della donna e dell’età evolutiva, oggi Grandolfo è in pensione, e mentre argomenta con passione dell’utilità e delle possibilità di superare i problemi con la volontà sia politica sia degli operatori, offre con questa intervista a inGenere.it la sua disponibilità a interventi di consulenza in qualsiasi Asl lo richieda, per contribuire a migliorare i servizi consultoriali.

Qual è l’idea ispiratrice alla base dei consultori?

Il modello dei consultori è nato dal movimento delle donne, che istituì i consultori autogestiti nei primi anni ‘70, e già pochi anni dopo diventano legge. Una delle rivendicazioni di quel movimento era sintetizzata dallo slogan era “il corpo è mio e lo gestisco io”, cioè un'istanza di autonomia. La legge che istituisce i consultori è del ‘75, e le stesse indicazioni a livello internazionali sono introdotte dalla carta di Ottawa del 1986, in cui si sottolinea il principio di promozione della salute come insieme di attività e processi che determina un aumento della capacità delle persone e delle comunità di avere controllo autonomo sul proprio stato di salute. Questa definizione sostituisce quella dell’Oms del 1948, che definiva "buona salute" l'assenza di malattia e benessere psicofisico, senza considerare da quale punto di vista si esprime questa assenza, o il fatto che la vita reale è fatta di cambiamenti e di alti e bassi. Ma soprattutto è un’impostazione che si è rivelata spesso fonte di interventi inutili, con conseguente aumento sia della spesa sanitaria, sia del danno, quanto meno in termini di ansia generata nella popolazione trattata inutilmente. I consultori sono nati come servizi altamente innovativi rispetto alla sanità tradizionale. Basti pensare al principio di mettere insieme competenze multidisciplinari, perché la salute ha in realtà una grande complessità, per esempio comprende una dimensione sociale e non si limita agli aspetti biologici. Un altro principio è la qualità del rapporto con l’utenza: il sistema tradizionale era basato su un’idea di paternalismo direttivo del tipo "io che so ti dico quello che devi fare". Invece il consultorio deve lavorare in termini di promozione di competenze, cioè le persone devono diventare in grado di fare delle scelte consapevoli.

Sono stati elaborati degli indicatori per misurare i risultati di questi interventi o per stabilire quante delle intenzioni sono state realizzate?

L’indicatore primario che usiamo è il cosiddetto “indicatore di processo”, cioè quante donne che hanno partorito, hanno svolto almeno di una visita a domicilio o in consultorio con la consulenza di un’esperta per costruisce un percorso prima del parto e nel puerperio. Un altro indicatore è il numero di donne primipare che partecipano ai corsi di accompagnamento alla nascita. Ancora più prezioso è l’indicatore della persistenza dell’allattamento al seno: cioè vedere quante donne allattano al seno alla nascita e quante continuano nei mesi successivi. Ricordiamo che il 95% delle donne desidera allattare al seno, e possono farlo tutte, con rarissime eccezioni. La cosa grave è che ancora oggi non tutte sanno che se vogliono, possono farlo. La difficoltà insorge quando si impedisce l’avvio corretto dell’allattamento al seno, cioè senza facilitare il contatto a pelle appena dopo il parto, senza favorire l’attacco al seno entro mezz’ora o massimo un’ora dal parto.

Come si va poi a verificare quali sono gli effetti di questi interventi?

Gli effetti vanno valutati con indagini campionarie. Ma innanzi tutto si fanno delle stime per stabilire la quantità delle ore e dei servizi da offrire. Per esempio una comunità di 20mila abitanti produce circa 200 nascite all’anno, e di queste circa un centinaio sono da primipare. Se per ipotesi le donne che accettano il corso di accompagnamento alla nascita sono l’80%, devo coinvolgerne almeno 80 primipare. Gli incontri devono mettere assieme non più di 15 donne, altrimenti non c’è partecipazione ma diventa al massimo una lezione frontale. Dunque sono almeno 6 corsi l’anno: se supponiamo che ogni corso sia costituito da 10 incontri, e che ogni incontro sia di almeno due ore lavorative, vuol dire che servono 20 ore lavorative. Da qui il calcolo settimanale delle ore da parte del personale. Lo stesso discorso è stato fatto per le visite in puerperio o per gli incontri di educazione sessuale nelle scuole.

E i  risultati invece come si valutano?

Qualche cosa è venuto fuori dalle indagini effettuate sui consultori, ma poco, perché non sempre erano chiari quali erano i beneficiari, cioè la popolazione target. In passato sono stati costruiti dei programmi di miglioramento delle procedure, secondo le indicazioni del Pomi. Per esempio tra 2008 e il 2011 c’è stato un finanziamento dal ministero della salute; è stato offerto un intervento a tutte le regioni italiane, che è stato accettato da 25 Asl. Quindi sono state condotte indagini sia prima dell’introduzione dei miglioramenti sia dopo un anno: un tempo breve per arrivare a dei risultati, che tuttavia, anche se limitati, sono stati significativi, per esempio sono aumentate le donne che hanno partecipato ai corsi di accompagnamento alla nascita. I risultati sono stati poi raccolti in un rapporto Istisan dell’istituto superiore di sanità. Oppure c’è un’altra indagine che abbiamo realizzato, in questo caso sulle donne straniere, a partire dagli ospedali con i parti maggiore da parte di donne immigrate (anche questo è un rapporto Istisan).

Facciamo un esempio: quante primipare partecipano ai corsi di accompagnamento alla nascita?

I consultori sono strutture fatte apposta per assistere la gravidanza e il post parto, ma è evidente l’enormità degli interessi in campo che spingono verso una medicalizzazione di questo percorso. Tutte le ricerche fatte dal '96 ad oggi costantemente confermano che i corsi di accompagnamento alla nascita offerti dai consultori pubblici hanno maggior gradimento rispetto a quelli offerti da altri, compresi i privati, e che gli esiti familiari e di salute sono migliori quando le donne hanno goduto di assistenza consultoriale. Però guarda caso sono poco usati.

Ci sono dei dati a riguardo?

La percentuale di donne che fa corsi di accompagnamento per il primo parto è di circa il 40-50%, quando potrebbe essere almeno l’80%. Al sud è ancora peggio, qui le donne assistite sono meno del 10%. La contraddizione sta tra i buoni esiti di chi ricorre al consultorio, e l’alta percentuale di donne che preferiscono rivolgersi a servizi privati, spendendo cifre importanti, magari per una quantità di ecografie inutili, e hanno soddisfazione minore e esiti di salute peggiori.

Perché secondo lei questo avviene?

Tempo fa è stata fatta un’indagine da un gruppo di studentesse ostetriche, hanno condotto delle interviste chiedendo alle donne se avevano fatto il corso di accompagnamento alla nascita, e in caso di risposta negativa ne hanno chiesto la ragione. Molte di coloro che hanno risposto di non averlo fatto perché lo ritenevano inutile, hanno poi aggiunto che il loro ginecologo le aveva sconsigliate. Siamo cioè di fronte a un sistema che tende a svalorizzare l’attività consultoriale.

Perché tutta questa ritrosia?

Perché se una persona è in grado di decidere per se, è più difficile farle digerire interventi diagnostici o terapeutici inappropriati. I consultori familiari sono stati tanto boicottati perché promuovono interventi per ridurre le malattie e di conseguenza la spesa sanitaria. Il problema è che i sistemi sanitari pubblici universali non sono sostenibili se non si controlla l’espansione dell’inappropriatezza. In Italia l’85% delle interruzioni volontarie di gravidanza viene praticata in anestesia generale, che secondo evidenze statistiche aumenta i rischi per la salute, mentre quella locale li riduce. Ma l’anestesia generale costa molto di più: per le analisi preventive, per l’uso di una sala operatoria, per i tempi di esecuzione, per l’impiego di maggior personale. Il tutto costa qualcosa come 150 milioni di euro in più ogni anno, soldi con cui si potrebbero finanziare i servizi del consultorio. Per non dire poi di quanto si potrebbe risparmiare con l’aborto farmacologico, i cui costi sono ancora più bassi.

Dalle altre interviste sono emerse enormi differenze territoriali, tra le regioni e tra nord e sud. Come si potrebbero superare queste differenze?

È vero che esiste un'importante differenza ma va detto che ci sono eccellenze anche al Sud: questo sta a significare che è anche una questione di volontà degli operatori e di governo dei distretti, delle Asl, della regione, fino al livello centrale. È chiaro che se voglio far funzionare il sistema, bisogna anche mettere a disposizione risorse adeguate. In aggiunta si potrebbe stabilire un sistema premiale per chi ha buoni risultati, per esempio corsi di aggiornamento o sistemi di finanziamento.

In Lombardia, ma anche in altre regioni, sono stati tentati o realizzati interventi accusati di rispondere solo a un’impostazione ideologica. Lei cosa ne pensa?

E' un’azione criminale, perché i servizi sanitari pubblici devono promuovere le competenze delle persone affinché queste facciano scelte autonome, e un’impostazione ideologica non può promuovere l’autonomia. Tra l’altro qualcuno spieghi dove sta l’etica quando le scelte sono obbligate. Chi vuole seguire un’impostazione ideologia lo faccia pure, ma quando accredito un servizio di sanità pubblica che risponde a una ideologia ho minato i fondamenti della sanità pubblica. La situazione della Lombardia è incresciosa, ma si è tentato di farlo anche altrove, in Toscana, in Veneto, più volte nel Lazio.

Come li vede i consultori in futuro?

Innanzi tutto non devono essere un sistema residuale ma la base di un sistema sanitario moderno e sostenibile, in grado di tenere sotto controllo le inappropriatezze. Se si vuole salvaguardare la sanità pubblica generale, non si può non partire dai consultori come mezzo per prevenire spese maggiori (la cura) e spese inutili (l’inappropriatezza).

Come rilanciarli?

Bisogna riflettere su come sono entrati in crisi. Già all’inizio degli anni ’80 emergevano elementi di crisi dovuti al fatto che nonostante i consultori nascessero con un’impostazione altamente innovativa, in realtà seguitavano a lavorare, nella generalità dei casi, con le persone che si presentavano spontaneamente. Cioè il comportamento professionale è stato di tipo tradizionale, a fronte di una novità assoluta che il principio di "offerta attiva". D’altronde erano operatori formati secondo i vecchi modelli. Quando si lavora con l’utenza che si presenta spontaneamente è facile che ci si occupi della cura invece che della prevenzione, perché è chiaro che una persona si presenta se ha un problema, o al massimo, quando va bene, arrivano quelli che hanno già un certo livello di competenze, se non altro perché già informati sui consultori, su dove trovarli e cosa andare a chiedere lì. È stato molto difficile per gli operatori uscire dalla mentalità dell’attendere, perché questo tra l’altro da loro un certo potere: stare dietro una scrivania ad aspettare che le persone arrivino dà per scontata la tua accettazione, mentre se sei tu ad andare da loro, sei tu che devi farti accettare e devi dimostrare di essere valido. Bisogna partire da qui.

 

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