Da settant'anni il rifugiato è maschio, eppure a chiedere protezione internazionale sono anche e soprattutto le donne. Un diritto davvero sensibile al genere deve allora partire da una domanda: perché una donna nel 2017 decide di fuggire dal proprio paese?
Il discorso giuridico risulta complessivamente ancora inadeguato a nominare le esperienze delle donne e ciò vale anche in tema di protezione internazionale.
La Convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo status dei rifugiati all’articolo 1 definisce infatti il rifugiato come colui “che temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure che, non avendo cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra”.
Tale costruzione giuridica è valsa a escludere per cinquant’anni le violenze di genere dal concetto di persecuzione[1].
Per decodificare il silenzio del diritto internazionale in materia di diritti delle donne e di persecuzione per motivi di genere è utile richiamare il fatto che la contrapposizione tra dimensione pubblica e dimensione privata ha delimitato storicamente il confine dell’ordinamento internazionale: almeno fino agli anni Novanta le specifiche violenze e persecuzioni subite dalle donne, in quanto iscritte alla dimensione personale-privata, sono state trattate come questione marginale, se non addirittura irrilevante.
Insieme a questo disinteresse istituzionale, si è registrato poi un disinteresse socio-politico che ha determinato l’assenza di studi e ricerche, comprese rilevazioni sistematiche disaggregate per genere sulle richieste di asilo: informazioni più dettagliate sulla presenza femminile tra i richiedenti asilo riguardano gli ultimi due anni[2], ma non consentono di avere un quadro chiaro sui motivi delle domande di asilo delle donne, sull’esito della procedura di valutazione, sulla qualità della loro vita sul territorio dei paesi di accoglienza.
Il sistema della protezione internazionale è rimasto per lo più incentrato sulla narrazione del vissuto degli uomini e il discorso socio-giuridico contemporaneo in materia di immigrazione e asilo è ancora declinato esclusivamente al maschile, seppure con accezioni sempre più stigmatizzanti: dal richiedente protezione internazionale o rifugiato rappresentato come attivista e dissidente che lotta per la sua libertà e per quella del suo popolo contro il potere costituito, si è passati all’immagine del richiedente asilo "invasore". Le donne rimangono sempre in un angolo: la loro esperienza di persecuzione rimane ridotta a conseguenza di vulnerabilità individuale connotata dal genere, per lo più meritevole di protezione umanitaria, mentre si trascurano le ragioni della persecuzione stessa né si riconosce il valore politico della ribellione delle donne sottesa a ogni forma di persecuzione da loro subita.
Ne consegue un basso tasso di riconoscimento dello status di rifugiata alle donne richiedenti protezione internazionale.
Ciò è il risultato di un diffuso fraintendimento sull’invito al gender mainstreaming anche in ambito giuridico, spesso inteso come l’aggiunta sic et simpliciter delle donne all’interno di un sistema di regole predefinito e al più integrato di misure di adeguamento in vista di tale operazione di inclusione.
Così hanno operato le organizzazioni internazionali e il diritto europeo e internazionale in materia di asilo: l’alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr) ha emanato una serie di indicazioni volte ad agevolare l’inquadramento delle specifiche persecuzioni subite dalle donne. Inoltre, l’Unhcr è intervenuto con indicazioni anche di natura procedurale, codificate dal diritto europeo e internazionale, volte ad individuare gli ostacoli concreti e a diffondere buone prassi utili a una completa ed effettiva valutazione della domanda di protezione internazionale presentata da donne.
La Corte europea per i diritti umani ha contribuito al riconoscimento della violenza domestica come forma di persecuzione meritevole di valutazione ai fini dell’asilo, condannando gli stati per le violenze subite dalle donne non garantite da misure adeguate a proteggere la loro incolumità psicofisica. La Convenzione di Istanbul, codificando l’orientamento della corte di Strasburgo, all’articolo 60 finalmente riconosce la violenza contro le donne basata sul genere quale forma di persecuzione[3], invitando gli stati ad adottare un approccio sensibile al genere in tutte le fasi del procedimento in materia di riconoscimento della protezione internazionale.
Da questa breve ricognizione si evince la tendenza ad "aggiungere" le donne in una cornice che però non è messa in discussione e ciò spesso senza tener conto della loro voce.
Questo silenzio costituisce una lacuna che, come scriveva la giurista Hilary Charlesworth nel suo storico articolo di critica del metodo del diritto internazionale nel 1992, "permea ogni livello del diritto internazionale e […] una lacuna a cui non si può porre rimedio con un rapido lavoro di costruzione, in quanto essa è una parte integrante della struttura dell'ordine giuridico internazionale, un elemento critico della sua stabilità”[4].
Il lavoro necessario che quindi oggi si impone anche in tema di protezione internazionale è misurare come il genere ha condizionato e condiziona il procedimento di valutazione delle richieste delle donne, non solo in termini di differenziazione di accoglienza e trattamento, ma anche in termini di rilevanza giuridica dei vissuti delle donne ai fini del riconoscimento dello status di rifugiata.
Bisogna quindi lavorare sulla struttura dell’ordine giuridico-politico e ciò è possibile solo a partire dall’esperienza delle donne.
Nell’ambito del progetto di ricerca condotta dall’associazione Differenza Donna Gendering Asylum Protection System (GAPS) finanziata dal Feminist Review Trust, proprio privilegiando come fonte di conoscenza le donne richiedenti asilo, è emerso un sistema lacunoso che di fatto impedisce alle donne il pieno godimento della protezione internazionale.
Il primo dato significativo è l’assenza di un sistema statistico completo sulle richieste di asilo. Non è facile recuperare i dati e manca una rilevazione sistematica delle informazioni da parte di tutte le agenzie coinvolte, degli enti di gestione e delle organizzazioni della società civile. I dati in possesso delle autorità non sono facilmente accessibili, e le autorità non rispondono alla richiesta di informazioni. In Italia poca ricerca è dedicata alle donne richiedenti asilo. I rapporti e gli studi più recenti non adottano una prospettiva di genere e ignorano il dibattito femminista internazionale sul tema.
Abbiamo chiesto poi alle donne richiedenti asilo le principali ragioni per cui sono fuggite dai loro paesi di origine e hanno richiesto asilo: hanno menzionato matrimoni precoci e forzati, mutilazioni genitali e persecuzione per motivi religiosi. Quando però hanno raccontato la loro storia di vita personale senza considerare la cornice della richiesta di asilo, le donne hanno ricostruito in modo più approfondito la loro esperienza, raccontando di aver vissuto situazioni qualificabili come tratta di esseri umani, discriminazione basata sul genere, emarginazione sociale, negazione dell’accesso all'istruzione "in quanto donne", violenza domestica, punizioni per essersi ribellate alle regole familiari e sociali. Tutto ciò è stato completamente ignorato nella valutazione della loro domanda che riceve per lo più considerazione ai fini della protezione umanitaria come soggetti vulnerabili. Nella pratica ciò comporta il rilascio di un titolo di soggiorno della durata variabile dai sei mesi ai due anni. Il titolo è previsto dall’ordinamento giuridico italiano quale misura residuale in caso di diniego dello status di protezione internazionale e qualora ricorrano "seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali".
I principali ostacoli a un efficace accesso al sistema di protezione internazionale sono i seguenti: mancanza di informazioni complete e dettagliate, mancanza di assistenza legale durante tutto l’iter, mancanza di specializzazione e diffusione di stereotipi sessisti tra gli operatori coinvolti nel processo di determinazione dello status.
Le donne richiedenti asilo, in generale, hanno espresso una diffusa sensazione di frustrazione e stanchezza per la durata dell’iter di valutazione della domanda e per il trattamento loro riservato. I loro sforzi per riprendersi la loro vita vengono continuamente ignorati. La ricostruzione della loro storia di vita è sempre difficile, ma i pregiudizi sessisti e culturali aggravano tale difficoltà. Le donne non si sentono né comprese né credute da coloro che incontrano nel percorso. Molte hanno riferito di episodi di discriminazione e di emarginazione anche all’interno della comunità di appartenenza. Le donne richiedenti asilo, rifugiate, titolari di protezione sussidiaria o umanitaria non ricevono adeguate informazioni relative al diritto all'assistenza sanitaria di base gratuita e per un lungo periodo rimangono senza avere accesso alle cure mediche di cui hanno bisogno. Non hanno accesso al lavoro né all’istruzione. Molto difficile rimane acquisire autonomia abitativa.
Note
[1] C. Doyle, "Isn’t persecution enough? Redefining the refugee definition to provide greater asylum protection to victims of gender based persecution", in Wash and Lee J. Civil Rights & Social Justice, 2009, pp. 519-530.
[2] Cfr. Open Migration, 2016; Eurostat, 2016; Women’s refugee commission, 2016
[3] Ai sensi dell'articolo 1, A (2) della Convenzione relativa allo status dei rifugiati del 1951
[4] Charlesworth H., Feminist methods in international law, American Journal of International Law 93(2), 1999, p.380
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