Il bonus baby sitter estendibile ai nonni conferma la vocazione familistica del nostro welfare e mette a rischio i più vulnerabili, indicando una via precisa per uscire dall'emergenza: che ognuno se la cavi da sé, nella propria famiglia e con le proprie forze
Abbiamo chiuso scuole e servizi per l’infanzia prima e più a lungo di tutti gli altri paesi per frenare la diffusione del contagio da Covid19 e così tutelare la salute dei più fragili, in particolare degli anziani. Ma allo stesso tempo paghiamo i nonni perché si sostituiscano a scuole e servizi sociali. Il paradosso è venuto alla luce con la circolare dell’Inps n. 73 del 2020, che disciplina l’attuazione degli articoli del decreto Cura Italia nella parte che riguarda i congedi parentali e i bonus concessi ai genitori-lavoratori durante il periodo dell’emergenza. Questi ultimi, annuncia la circolare, potranno essere destinati anche ai familiari.
Facciamo un passo indietro. Il primo decreto varato dal governo all’inizio dell’emergenza, denominato “Cura Italia”, introduceva misure per aiutare i lavoratori dei settori non interessati dal lockdown, con figli al di sotto dei 12 anni. Tra queste, un bonus per pagare i servizi di baby sitting (o l’iscrizione a centri per l’infanzia), in alternativa alla fruizione di un congedo parentale straordinario. Il successivo decreto “rilancio” ha confermato e ampliato la misura. Il bonus può essere chiesto da lavoratori dipendenti e autonomi, per il periodo che va dal 5 marzo al 31 luglio 2020, per un valore massimo di 1.200 euro (che sale a 2.000 per medici, infermieri e operatori sociosanitari). E può essere speso sia per servizi di baby sitting che per pagare centri diurni, ludoteche, centri estivi.
La novità, certificata dalla circolare dell’Inps, è che il bonus per baby sitter può essere utilizzato anche per pagare familiari: vale a dire se il bambino è affidato ai nonni, a uno zio o zia, o altri parenti, purché non siano conviventi. Recita il testo della circolare: “In via ulteriore, su conforme parere ministeriale, si chiarisce la non applicabilità del principio di carattere generale della presunzione di gratuità delle prestazioni di lavoro rese in ambito familiare, salvo si tratti di familiari conviventi con il richiedente e, ovviamente, di soggetti titolari della responsabilità genitoriale (genitore, anche se non convivente, separato/divorziato)”. Dal linguaggio burocratico emergono due notizie: 1) non è un dettaglio attuativo da poco, visto che è stato chiesto il “conforme parere ministeriale”; 2) per la prima volta il lavoro dei nonni (o di altri parenti) viene monetizzato, a meno che chi guarda il pupo non sia già convivente nella stessa abitazione.
Un riconoscimento che potrebbe parere di buon senso – quello del valore economico del lavoro di cura, anche se fornito in famiglia, per lo più dalle donne – ma che invece apre una contraddizione drammatica sul piano sanitario e sociale. Il paradosso sanitario è evidente: la chiusura delle scuole, degli asili e di tutti i servizi per l’infanzia, motivata dalla necessità di contenere il contagio e attuata in dimensioni e durata che non hanno eguali in altri paesi europei, è stata voluta a tutela di tutti ma soprattutto dei soggetti più vulnerabili agli effetti letali del nuovo coronavirus, ossia i più anziani. Portare dai nonni i bambini considerati troppo “pericolosi” per la diffusione del contagio tanto da non farli andare a scuola non pare una grande idea: di fatto per molti è stata una necessità, ma se la necessità viene scritta nero su bianco su una circolare diventa una colossale contraddizione e ammissione di impotenza del pubblico a trovare altre soluzioni.
Sul piano sociale, invece, più che una contraddizione è una conferma. Viviamo in un paese nel quale il 38% delle famiglie con figli sotto i 14 anni ricorre all’aiuto di familiari e parenti (in nove casi su dieci i nonni), più di quanti non usino nidi pubblici o privati (31%). In altre parole, l’equilibrio tra famiglia e lavoro si basa sui nonni, ossia sulla presenza di una famiglia di origine vicina e disponibile. Un modello familistico duro a morire. Innanzitutto per cultura: resiste la convinzione che affidare i bambini fuori dalle ore strettamente scolastiche a estranei anche se specializzati sia una soluzione di ripiego che offre meno garanzie e benefici rispetto alle cure di un famigliare.
Nessuno dubita dell’affetto dei nonni, ma a volte l’affetto non basta, soprattutto in Italia dove il 49 per cento degli over 65 ha al massimo la licenza elementare. Poi per necessità: per la scarsità di scuole a tempo pieno, asili nido con orari flessibili, centri diurni a prezzi accessibili. Il fallimento del modello familistico però è evidente nel contemporaneo doppio record della bassa occupazione femminile e bassa natalità in Italia.
Nella sua drammaticità, l’emergenza da Covid19 poteva anche essere l’occasione per rilanciare i servizi, pensare un nuovo modello di cura e assistenza sul territorio, e a una nuova conciliazione tra figli e lavoro. Per cominciare, valorizzando il settore “povero” dei servizi, professionalizzandolo.
Invece, non solo l’emergenza economica aggredisce i piccoli passi avanti fatti nel lavoro femminile, ma si santifica il vecchio modello del welfare familistico. Sia chiaro: non vogliamo sminuire il ruolo dei nonni, del loro contributo affettivo e spesso anche materiale (date le condizioni economiche delle famiglie giovani) al benessere dei più piccoli. Tanto più mentre ancora si piangono le tante, troppe persone anziane falcidiate dal Covid19, molte di loro morte senza aver potuto avere vicini i propri cari.
Ma il bonus nonni, oltre a rischiare di rendere vani tutti gli sforzi che come collettività dovremmo fare per proteggerli, illumina come un faro sinistro quella che sembra la via d’uscita dall’emergenza che si sta indicando: che ognuno se la cavi da sé, nella propria famiglia e con le proprie forze. Anche se è esattamente questo il sistema che ha reso la nostra società più debole e ingiusta nell’era pre-Covid, e ha allargato le vulnerabilità e le ingiustizie con l’assalto del virus. In quest’ottica, il fatto che la scuola e i servizi per i bambini siano stati messi in fondo alla scala delle priorità e riaprano per ultimi, e a casaccio, non è un effetto della pandemia: è una scelta.