Come si è formato il debito pubblico italiano
Perché è così alto il debito pubblico italiano (misurato come rapporto sul Pil), visto che guardandoci intorno ci troviamo con un sistema di welfare ancora rudimentale e ineguale, con vaste parti della popolazione che ne sono escluse, un modesto sistema di infrastrutture fisiche (ospedali, edifici scolastici, strade, trasporto pubblico) e sociali (istruzione, assistenza ecc..)? Come è che abbiamo speso tanto e ottenuto così poco?
Negli anni settanta l’Italia ha cercato di avvicinarsi al modello sociale che si andava affermando in altri paesi europei, con istruzione, pensioni e cure mediche per tutti. L’attuazione delle necessarie riforme (del lavoro, delle pensioni, della sanità e della scuola) ha comportato un aumento di spesa cui non è corrisposto un proporzionale aumento delle entrate. Diversi gruppi sociali, con reddito medio alto, pur godendo di maggiori servizi, sono riusciti ad evitare di saldare il conto pagando le tasse e hanno preferito sottoscrivere i titoli del debito pubblico che sono serviti a finanziare il debito.
Negli anni ottanta, in un contesto di prezzi in calo, i tassi di interesse reali sui titoli di credito sono saliti ovunque e la necessità di pagare interessi più alti ha fatto lievitare ulteriormente il debito pubblico. Un debito crescente sembrava produrre reddito perché distribuiva redditi crescenti a famiglie e ad imprese sotto forma di interessi su BOT e CCT. I piccoli risparmiatori erano contenti. Ma la distribuzione era meno che equa: nel 1991 il 75% degli interessi sul debito era incassato dalle imprese e dal 40% più ricco della popolazione. Nel frattempo era aumentato il peso della tassazione fino a raggiungere negli anni novanta quel 45-47% del PIL che conserva tutt’ora. Ma il debito era così cresciuto che nemmeno le maggiori tasse riuscivano a coprirlo.
Alle soglie del duemila siamo entrati nell’euro, seppur con grande fatica. La moneta unica ci offriva l’opportunità di risanare il debito. Con l’azzerarsi del rischio di svalutazione non dovevamo più pagare interessi alti per assicurarci una domanda sufficiente per i titoli del debito pubblico italiano denominati in lire e a rischio di svalutazione. Gli interessi sul debito molto più bassi ci hanno offerto l’occasione del risanamento purché fossimo riusciti a crescere abbastanza. Una riforma che abbassasse la pressione fiscale era un ingrediente importante per la ricetta della crescita. La riforma c’è stata, ma è andata a vantaggio soprattutto dei redditi più alti: ben il 40% del totale degli sgravi fiscali cumulati fra il 2001 e il 2005 con il secondo governo Berlusconi è stato incassato dal 10% più ricco della popolazione. (1) E la crescita è in gran parte mancata. Cosi il peso del debito sul PIL non poteva diminuire, a meno di tagliare la spesa pubblica. I tagli si sono abbattuti soprattutto sulla spesa sociale, non si è potuto mettere mano ad una riforma degli ammortizzatori che generalizzasse il sussidio di disoccupazione o istituisse un salario minimo a difesa dei precari; e non sono decollati i servizi per la famiglia, strumento indispensabile per la riconciliazione lavoro per il mercato-lavoro di cura.
(1) Si veda M. Baldini, M. Morciano, S. Toso, "Chi ha beneficiato delle riforme del nostro sistema di tax benefit", in "Povertà e benessere, a cura di A. Brandolini e C. Saraceno, Il Mulino 2007.