Linguaggi

Viviamo una fase comunicativa schizofrenica, in cui se da un lato impera un perbenismo linguistico a tratti ridicolo, dall'altro il turpiloquio è sempre più apprezzato in quanto espressione di una presunta sincerità. In tutto ciò il linguaggio sessuato e sessista dilaga, sia in ambiti popolari che istituzionali. Un libro ne analizza gli effetti venefici

Le parole tossiche
e i nervi scoperti dell'Italia

5 min lettura

Ha fatto discutere sentenza della Cassazione  (16/10/2014, n. 43314) che ha confermato a carico di un cinquantacinquenne la condanna per violenza sessuale (dovuta a unpalpeggiamento al sedere di una collega), annullando però quella per ingiuria (l'uomo aveva accompagnato il gesto con la frase «Giuseppì… stasera ho un c***o…»). Secondo i giudici, «pur essendo indubbia la terminologia volgare e ineducata», vi era un «inequivoco riferimento dell’imputato non già alla interlocutrice, bensì a se stesso», e dunque «assenza di offesa alla dignità altrui».

Eppure, il linguaggio è per natura ponte verso l'altro, mezzo con cui definiamo e veicoliamo relazioni di potere, ideologie, stereotipi, come evidenzia Graziella Priulla in Parole tossiche. Cronache di ordinario sessismo (ed. Settenove, 2014, pp. 176, € 15). La sociologa traccia qui un lucido quadro dell'attuale panorama italiano, immortalato in una fase comunicativamente schizofrenica: se da un lato si registra un iper-controllo del linguaggio (che sfiora talvolta il perbenismo o il ridicolo), dall'altro si intensifica sempre più la tolleranza verso pressoché ogni tipo di manifestazione triviale (sessista e no) in qualsivoglia ambito. E dato che è impossibile separare la storia delle parole e dei loro (ab)usi da quella dei concetti a cui si riferiscono, Priulla indaga in prospettiva diacronica, linguistica e sociologica i contesti nei quali locuzioni e termini si sono sviluppati e hanno tratto forza.

L'opera della studiosa, lungi dall'essere un mero esercizio accademico, vuole toccare i nervi scoperti di una nazione che – attraverso beceri tic linguistici, facili etichette e vuoti terminologici – tradisce la sua fatica nel sostenere una cultura della parità (e non solo di genere) a tutto tondo. Perciò, persino «seguire le dinamiche del turpiloquio, ossia in ultima analisi tracciare le rotte dell'interdetto, significa accedere alle dinamiche profonde e ai nodi irrisolti, alla zone d'ombra della società» (pag. 67).

Su di esse Priulla tenta di gettar luce nella prima metà del saggio, esaminando specialmente le dinamiche comunicative di confronto/scontro che si stanno imponendo a più livelli. Sebbene siano spesso connessi a una sostanziale vacuità di contenuti e mirati allo svilimento dell'altro (in particolar modo se appartenente a un gruppo percepito come debole o minoritario), il turpiloquio, l'uso di toni aggressivi e il ricorso a attacchi personali sono ormai accettati e addirittura apprezzati in quanto (presunti) indizi di sincerità. E poco importa, sembra, se questo desiderio di schiettezza si spinga sino ai confini della «pornografia emotiva» (pag. 38) o, peggio, al «regime biospettacolare della pornocrazia» (pag. 50), in cui la raffigurazione pubblica di sé ha perso ogni traccia di pudore, dal momento che «la visibilità ha sostituto la reputazione» (pag. 43).

Queste tendenze, come evidenzia Priulla, caratterizzano tanto i mass e i social media, quanto la sfera pubblica per eccellenza, quella politica, la quale negli ultimi anni ha mostrato un preoccupante scadimento dei contenuti e delle loro modalità espressive. Se ora ci fa sorridere l'invettiva d'antan di Ugo La Malfa all'indirizzo di un monarchico («Ella è un miserabile»), è pur vero che, rispetto ai nostri tempi, «la Prima Repubblica era articolarmente allusiva, decentemente istruita, ma soprattutto era più fantasiosa nelle sue parolacce», come aveva già notato Filippo Ceccarelli («la Repubblica», 26/11/2009). Oggi, invece, assistiamo a una «privatizzazione del linguaggio politico» che si nutre dell'«incultura della sopraffazione» (pag. 53). Fuori e dentro le aule parlamentari infuriano polemiche, i dibattiti degenerano in sequele di insulti, la qualità dei messaggi precipita drasticamente, a discapito dell'intera collettività.

Non a caso, come ben rileva e investiga la seconda metà del volume, il linguaggio sessuato e/o sessista dilaga sia in ambiti popolari, sia istituzionali. Fra i suoi principali bersagli troviamo le donne, che un simile trattamento degradante subiscono pure sul piano iconico: se, difatti, i loro corpi vengono di regola mercificati, esposti, resi deliberatamente scurrili per titillare bassi istinti o provocare grasse risate, di conseguenza la lingua adoperata per descriverli mortifica e si mortifica, poiché una comunicazione strumentalmente sessuata non punta a instaurare legami, ma ad agire su qualcuno, denigrandolo, sezionandolo in parti capaci di suscitare piacere o repulsione.

Malgrado già da diversi decenni si rifletta sull'uso di un linguaggio più aperto alla parità (Il sessismo nella lingua italiana di Alma Sabatini fu pubblicato nel 1987 dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri) e siano in corso campagne di sensibilizzazione a questo riguardo – come quella significativamente intitolata #GiornalismoDifferente, a cui «InGenere» dà il suo contributo –, i discorsi presentati dai media continuano a pullulare di generalizzazioni, luoghi comuni, espressioni più o meno intenzionalmente tratte dal vocabolario dell'hate speech. E così «il sistema approfitta dell'insicurezza generale innestando nuove dinamiche: nel vuoto che si è creato ha inserito una subcultura di stereotipi che si rifà più o meno esplicitamente a un linguaggio di mercato e che invade tutto l'ambito dei rapporti, mettendo al posto di relazioni umane una serie di logiche provenienti da tutt'altri interessi e minando ogni possibilità di liberazione» (pag. 86).

Se la lingua gioca un ruolo fondamentale nella costruzione sociale della realtà e dunque anche in quella dell'identità di genere, ciò che emerge da Parole tossiche è il ritratto di un paese che veicola con insistenza una rappresentazione distorta della donna, fortemente legata al suo corpo e alla sua sessualità, mentre incontra tuttora non poche difficoltà a definire l'agire e le scelte di vita femminili che si discostano dai percorsi tradizionali (basti pensare ai malvisti “ingegnera”, “sindaca”, “chirurga”, e così via).

Il lavoro da fare è, insomma, ancora cospicuo: una costante riflessione sulla libertà di espressione unita a una seria educazione alle differenze appaiono adesso più che mai necessarie in una società come la nostra, tecnologicamente avanzata, in cui però «molti sono ancora analfabeti sul piano comunicativo, emozionale, relazionale» (174). 

Graziella Priulla, Parole tossiche. Cronache di ordinario sessismo