Lettere a inGenere. Corpi indigeni

Nelle ultime settimane si è tornati a usare il corpo delle donne per fini strumentali: si è parlato sui media di tutti i corpi coinvolti, a partire da quelli delle donne che ballano in una festa tra amici ma a cui è negato il diritto di divertirsi perché “in-carnano” una istituzione, a quelli violentati mentre tornano a casa dal lavoro o escono da un pub in vacanza, a quelli trucidati a sprangate nel cortile di una casa non tanto distante dalla mia, fino a quelli delle donne che in politica infiammano la campagna elettorale.
C’è un “filo rosso” che attraversa tutti questi discorsi pubblici: la riduzione a oggetto del corpo delle donne. Non la riduzione a corpo: anche il corpo ha un suo statuto, per abusarlo bisogna ridurlo a semplice contenitore, merce che si può comprare, denigrare, rubare, rompere. È un processo di degradazione, che accomuna le donne ad altre colonizzazioni.
Il corpo delle donne abusato diviene sub-umano. Ma il corpo delle donne è “indigeno”, è originario cioè dello stesso luogo in cui vive e da cui proviene. La sua sapienza, io credo, non vi deriva però da nessuna ragione “simbolica”, ma dall’adattamento evolutivo: si impara, fin da piccole, che il maschio è il predatore dal quale difendersi.
Esattamente come lo imparano gli animali con le specie avverse. Che tutto questo abbia a che fare con un piano ormonale o culturale non incide sul risultato finale: il modo in cui si esercita la supremazia. Vi sono matriarcati altrettanto terribili, mistificanti, discriminatori. Poiché nasciamo maschi e femmine, ma donne e uomini si diventa, non è dunque universale la battaglia per i diritti di tutte le altre.
E non è pensare “al maschile” come ha invocato Natalia Aspesi nel suo editoriale, quello delle donne che non condividono le lotte femminili: è piuttosto una identificazione col potere. Perché ci sono uomini che a questa trappola sanno sottrarsi. Il patriarcato è universale, ma gli uomini non sono geneticamente patriarcali.
Che il nostro potere sia tutto nel corpo, come tanta parte dei femminismi ha spesso cavalcato, è la vulgata che i saperi delle donne devono lasciarsi alle spalle, perché fa il gioco di chi ci pensa ancora come un “utero vagante”.
Allo stesso modo, bisognerebbe smetterla di chiamare “sessuale” la violenza. Perché non è l’appagamento orgasmico che muove la violenza di genere ma l’annientamento della resistenza dell’altra. La sua diffusione a livello globale non dimostra che la violenza maschile sia endemica o pandemica ma piuttosto il suo uso strumentale come arma di annientamento di massa delle donne, anche quando non è agita ma solo presagita.
In questo senso io vedo il femminismo come una forma di resistenza.
La vita delle donne muta, come le stagioni: nessuna cosa è per sempre: come le mestruazioni, che un giorno ci abbandonano senza salutare. È la fertilità che ci dice donne? Se fossimo definite solo dalla nostra natura, sarebbe tutto semplice. Il periodo del calore ci indicherebbe la strada a senso unico della riproduzione e poi l’abbandono materno dei cuccioli, l’accettazione delle calamità naturali.
Ma la violenza maschile non è parte di un cataclisma immutabile, è piuttosto il modo in cui il sistema di questo ordine di potere riproduce se stesso, attraverso il terrorismo di genere, paradigma di tutte le altre oppressioni.
Forse siamo come un antico quipu inca: un insieme di corde annodate a un laccio che le sorregge, indecifrabile sistema che prima della scrittura serviva a memorizzare il mondo. Forse dunque, abbiamo solo perso l’alfabeto che ci legava, foglie d’autunno, all’albero della vita. Perché la morte non è sparire dal mondo, ma sentirsene estranee, degradate, indegne alla vita e indigene alla morte.
È questo che sperimentano le donne quando si sentono prede.
Chiara Cretella, sociologa esperta di comunicazione ed educazione di genere
Nell'immagine: Cecilia Vicuña, Quipu grembo, Tate Gallery