Una ingannevole via di fuga verso la mondanità della città, guanti e cappelli che non danno la felicità, la noia e l'insoddisfazione nonostante tutto
Mobili e vestiti tra città e campagna - Natalia Ginzburg

Natalia Ginzburg (1916-1991) pubblicò i primi racconti negli anni Trenta, non ancora ventenne. Nel 1938 aveva sposato Leone Ginzburg ed erano nati i figli Andrea e Carlo; due anni dopo seguì il marito al confino a Pizzoli, un villaggio a pochi chilometri dall’Aquila, dove nacque la figlia Alessandra. Qui scrisse nel 1942 il suo primo romanzo - La strada che va in città - pubblicato con lo pseudonimo di Alessandra Tornimparte. Un esordio felice, nel quale l’autrice si misura con uno stile asciutto, misurato e distante ma partecipe allo stesso tempo, che avrebbe in seguito caratterizzato i testi famosi della maturità: i saggi de Le piccole virtù (1962), e soprattutto Lessico famigliare (1963) che vinse il premio Strega e le assicurò un meritato posto d’onore nella letteratura italiana del secolo scorso.
La strada che va in città ha come protagonista Delia, la quale vive in un piccolo paese di campagna con i fratelli e i genitori e sogna di poter andare in città, dove da qualche tempo abita la sorella Azalea, sposata con un uomo ricco, che ha una bella casa, dei bambini accuditi dalla serva Ottavia, e un amante. Delia sceglie di non impegnarsi in una relazione con Nini, un cugino cresciuto in casa, personaggio di ‘diverso’ ben delineato, di carattere allegro e accanito lettore, il quale convive con una ricca vedova che poi abbandona per rimanere da solo, beve molto e muore giovane di polmonite. Rimasta incinta di Giulio, figlio del dottore del paese, pur non amandolo Delia decide di sposarlo, spinta dal miraggio di una casa nuova e di abiti lussuosi.
I personaggi sono immersi in un perenne stato di irrequieto malcontento e desideri insoddisfatti; la strada verso la città è vista come via d’uscita per riuscire a superare il senso di frustrazione e insofferenza che pervade la quotidianità. È uno spazio che unisce e separa al tempo stesso l’esistenza in paese da quella cittadina. I due mondi sono caratterizzati dal contrasto offerto da vestiti, mobili e spazi domestici così diversi nell’uno e nell’altro.
Dopo che Delia ha comunicato ai suoi di essere incinta, va a vivere con una zia in un paese vicino, descritto come “peggio del nostro. … Nelle case non c’era luce e l’acqua si doveva prendere al pozzo”. Pensa di continuo alla città, dove “si compravano le mandorle salate, i gelati, si guardavano le vetrine”. I sogni ad occhi aperti riguardano invariabilmente indumenti o suppellettili (“mi misi a pensare a certi guanti che mi sarei comprata dopo l’ospedale, di pelle bianca con le cuciture nere,… e poi tutti i vestiti e i cappelli che volevo farmi …”).
Il raggiunto benessere anziché portare felicità, produce tuttavia un tipo di noia e insoddisfazione diversi. Il ricordo del paese e delle sue miserie torna spesso nei sogni e fantasticherie della protagonista che vive ormai un’esistenza agiatamente inappagata. Nelle ultime pagine, lasciato l’ospedale dopo il parto, Delia entra nella nuova casa, e si aggira per le stanze: “ammiravo i mobili e le stanze, spazzolandomi adagio adagio i capelli e bevendo il caffè. Ripensavo alla casa di mia madre, con la cacca dei polli dappertutto, con le macchie d’umido sui muri, con delle bandierine di carta legate alla lampada, nella sala da pranzo.”