Politiche

Il caso del Brasile rende ancora più chiaro perché è così importante nominare la violenza maschile sulle donne nei discorsi pubblici e in quelli privati

Cosa ci insegna il Brasile
sulla violenza degli uomini

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Foto: Unsplash/ Eye for Ebony

Negli ultimi anni in Brasile il tema della violenza maschile contro le donne è stato portato all’attenzione dell’opinione pubblica, in particolare in riferimento alle violenze sessuali. Questo è il risultato dell’impegno politico di lunga durata compiuto da gruppi storicamente consolidati –gruppi femministi, gruppi di donne nel movimento nero, nei sindacati e nei partiti di sinistra –, a cui si è aggiunto il lavoro di informazione portato avanti da collettivi di donne e femministe anche molto diversi tra loro nella struttura organizzativa. Usando i social network in modo mirato, gruppi o singole hanno proposto campagne di sensibilizzazione su cosa sia violenza maschile contro le donne. Il lavoro sulla percezione, la definizione e il riconoscimento di questa violenza è forse uno degli elementi più interessanti che emergono dal panorama brasiliano.

Un caso recente è la campagna organizzata nell’agosto 2017 a seguito di un episodio di violenza avvenuto in un autobus a São Paulo, in cui un uomo ha eiaculato su una donna. Secondo il giudice occupatosi del caso “non c’è stato imbarazzo, e neanche violenza o grave minaccia, poiché la vittima era seduta su un sedile dell’autobus quando è stata colta di sorpresa dall’eiaculazione dell’indiziato”. In risposta alla sentenza del giudice, diversi gruppi di donne hanno lanciato una campagna mediatica all’insegna dello slogan “Sì, c’è stato imbarazzo. Per la fine della cultura dello stupro”[1]. Così come in altri paesi, l’uso dei social network ha un ruolo sempre più rilevante per convogliare messaggi di contrasto alla cultura patriarcale. Un esempio è il #CarnavalSemAssédio (Carnevale senza molestie) che ha rotto la tradizionale rappresentazione del Carnevale brasiliano, come momento di divertimento, di piacere per tutti: in realtà, per molte donne si tratta di un’esperienza carica di tensioni, in cui per strada, nella folla, si fa fronte a situazioni di molestie, spesso presentate come un neutrale "provarci" se non addirittura come fare dei "complimenti". Altri episodi drammatici mettono in evidenza come i social network siano ambivalenti. È il caso della ragazza di 16 anni che è stata stuprata nel 2016 a Rio de Janeiro dopo essere stata drogata da un gruppo di trentatré uomini, alcuni dei quali hanno ripreso le immagini delle violenze facendole circolare su reti sociali. La giovane ha ringraziato sulla sua pagina FB per la solidarietà manifestatale sui social network, confessando che temeva che sarebbe stata "giudicata male" per quanto le era successo. La possibilità di liberarsi dalla posizione di colpevole, in cui automaticamente la giovane si era sentita, sembra esserci stata anche grazie alla circolazione sulle reti sociali di un chiaro discorso di denuncia della violenza subita. Altre iniziative coniugano l’uso delle reti sociali con l’organizzazione di incontri, è il caso dei dibatti nelle Università per affrontare il problema delle molestie sessuali negli atenei, tra gli ambienti in cui sembra più difficile intervenire per la resistenza con cui la comunità accademica maschile reagisce alle denunce di molestie da parte di studentesse, personale tecnico amministrativo e docenti[2].

L’aspetto di novità di queste campagne e iniziative è proprio l’insistenza sulla necessità di nominare la violenza in quanto tale e di rivendicare questo atto di nominazione come atto politico centrale in sé, necessario per rompere una cultura che rende invisibile, che ridicolizza, che ridimensiona atti di violenza sessista. Uno dei concetti più ripetuti, non a caso, è quello di "rompere il silenzio", un silenzio da intendere in vario modo: non solo quando si nasconde, si fa finta di niente di fronte ad atti di violenza, ma anche quando si impone di non definire come violenza quello che invece lo è.

Il dibattito sulla violenza maschile contro le donne non si limita alla questione della violenza sessuale, ma è articolato dai gruppi femministi in una prospettiva che include la salute, il lavoro, le scelte riproduttive – in Brasile l’aborto è legalmente permesso solo in caso di stupro o di gravi malformazioni del feto. In particolare, le donne nere lavorano affinché si riconosca come la violenza maschile si combini con altre forme di violenza che condizionano la loro vita, il razzismo e la discriminazione di classe. L’obiettivo politico è comprendere la violenza maschile come una violenza strutturale che si interseca, e si riproduce attraverso altre forme di violenza.

I dati dimostrano che le donne nere sono più colpite dalla violenza maschile: il 25% delle bianche, il 31% delle pardas (letteralmente scure) e il 32% delle nere ha subito qualche forma di violenza negli ultimi 12 mesi. Il caso delle lavoratrici domestiche illustra in modo esemplare come la lotta contro la violenza maschile investe necessariamente il problema del razzismo e della differenza di classe. In Brasile ci sono 7,2 milioni di lavoratori domestici, pari al 7,8% del totale della popolazione occupata, di cui il 93% sono donne, e il 62% sono nere[3]. Il lavoro domestico femminile è profondamente radicato nella formazione schiavista della società, benché ci siano stati cambiamenti di enorme portata negli ultimi anni. È ancora un lavoro svalorizzato, e le nuove generazioni di donne di classe popolare cercano di sottrarvisi.

Le lavoratrici domestiche sono state per molto tempo considerate a totale disposizione dei propri datori di lavoro, anche per le prestazioni sessuali. Benché poco documentato nella letteratura scientifica, è noto come in passato fosse diffusa l’abitudine di "iniziare" alla vita sessuale i figli delle famiglie bianche di classe medio-alta con le lavoratrici domestiche. Gli stupri e le molestie sono ancora oggi diffusi. Nella mia ricerca, tra sindacaliste e lavoratrici domestiche è emerso chiaramente come il tema delle molestie sessuali da parte dei datori di lavoro sia affrontato dalle attiviste del sindacato, anche esse lavoratrici domestiche, con la consapevolezza di come tali atti di violenza siano radicati anche in rapporti di potere di classe e "razza"[4]. Le attiviste riconoscono gli ostacoli materiali e psicologici che una lavoratrice incontra nel denunciare le molestie alla moglie del datore di lavoro, o alle autorità deputate, in entrambi i casi persone bianche. In questi casi la violenza sessuale e sessista si combina con il razzismo che storicamente ha legittimato le violenze degli uomini bianchi sulle donne nere, viste come a disposizione anche per prestazioni sessuali. A loro volta, la violenza sessista e il razzismo si combinano con le diseguaglianze di classe che costruiscono l’identità dei bianchi di classe medio-alta sullo sfruttamento delle lavoratrici domestiche. Infine, la lavoratrice povera e non-bianca che denuncia la molestia subita si scontra spesso con il rifiuto da parte della moglie del molestatore di crederle, dimostrando come il razzismo e la diseguaglianza di classe possono condizionare il riconoscimento e la rilevanza data alle esperienze di violenze sessuali.

Così come negli altri casi riportati, anche in questo, il punto su cui le sindacaliste insistono è la necessità di nominare la violenza subita, di riconoscerla in quanto tale, e di dare solidarietà e sostegno a qualsiasi forma di azione, incluso l’uso dei social network, per rompere il silenzio in cui queste violenze sono state tenute nella storia del Brasile.

Note 

[1] Si veda ad esempio https://www.8mbrasil.com

[2] Si veda il caso dell’Università del Ceará; altre iniziative sono presenti nelle Università di Mossoró e Natal.

[3] Situação atual das trabalhadoras domésticas no país, Comunicados do Ipea, n. 90, Rio de Janeiro, IPEA, 2011

[4] "Molestie sessuali nel lavoro domestico e passato schiavista. Un’indagine tra lavoratrici e sindacaliste in Brasile", in Variazioni africane. Saggi di antropologia e storia, a cura di Fabio Viti, Il Fiorino, Modena, 2016, pp. 149-175.

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