Educare alla matematica è utile, ma ha un impatto limitato se poi le ragazze si scontrano con un mercato che le penalizza. Cosa dicono i dati sui percorsi formativi e di carriera delle donne che studiano le scienze
In Italia sono ancora troppo poche le ragazze che scelgono di studiare le materie scientifiche. La percentuale di laureate in settori STEM (scienze, tecnologie, ingegneria e matematica) è infatti del 40% sul totale del settore contro il 79% nel settore letterario ed artistico culturale. A confermarlo sono i dati del recente rapporto di Almalaurea Laureate e laureati: scelte, esperienze e realizzazioni personali, che ci parlano anche di un mercato del lavoro che incide ancora sulle scelte e sui percorsi formativi delle donne a loro svantaggio.
Due punti del rapporto attirano in particolare l’attenzione. Il primo: che le donne risultano maggiormente occupate nel settore pubblico con contratti o a tempo determinato o part-time. Il secondo: che in generale, nella scelta del percorso universitario incide anche la prospettiva lavorativa futura, con differenze tra i generi nelle categorie di preferenza.
Per le donne assumono grande rilevanza le prospettive di stabilità lavorativa, la coerenza con gli studi e le possibilità di conciliare il lavoro con la vita privata e familiare presente e futura. I loro colleghi uomini, invece, tendono a guardare con più interesse alle prospettive di carriera e di guadagno.
Leggendo tra le righe del rapporto e combinando i due elementi, questo vuol dire che nel lungo periodo le donne rinunceranno più facilmente a lavori poco stabili o con orari non conciliabili con la maternità, la famiglia e il lavoro di cura in generale, e che tenderanno quindi a preferire quei settori di studio che consentono sbocchi lavorativi considerati “più sicuri” anche a fronte di stipendi medi più bassi e di una minore valorizzazione delle competenze specifiche. Gli uomini, invece, tenderanno a dare priorità alla carriera, assumono posizioni lavorative meglio retribuite nelle grandi imprese private e investono maggiormente nella crescita professionale raggiungendo più facilmente ruoli apicali.
Guardando alle prospettive di carriera in ambito universitario e della ricerca sappiamo che diventare ricercatrice o docente prevede una serie di step e prospettive lavorative non sempre sostenibili: dal dottorato al diventare ricercatrice o docente associata e poi ordinaria la trafila è lunga e tortuosa. In media una persona impiega tra i dieci e i quindici anni per ottenere una stabilità lavorativa in questo campo, passando attraverso forme contrattuali precarie e decine di concorsi che si ripetono anno per anno finalizzati al reperimento dei fondi per sostenere la propria attività di ricerca.[1]
I dati del rapporto She Figures della Commissione Europea[2] mostrano un aumento generale delle dottorande in Europa: tra il 2015 e il 2018 c’è stato un tasso di crescita medio dello 0,4%, la percentuale di dottorande in Italia raggiunge il 50%, leggermente più elevata della media europea ma in diminuzione rispetto al precedente rilevamento (nel 2015 la percentuale si assestava al 53,18%), sussiste ancora una forte segregazione orizzontale come mostrato nei grafici che seguono.
Figura1. Percentuale di dottorande per macrosettori di studio, 2018
Fonte: Rapporto She Figures 2021
Figura2. Distribuzione dottorandi nei macrosettori Stem per sesso, 2018
Fonte: Rapporto She Figures 2021
Il totale degli assegni di ricerca delle università italiane era 13.700 nel 2019, di cui il 57% assegnati a donne. A oggi nelle aree STEM sono attivi 8.082 assegni per progetti di ricerca, di questi 3.344 sono in capo a donne, di cui la maggior parte nel settore delle scienze biologiche.[3]
Le basse percentuali di questi settori sono però leggermente migliori rispetto alle precedenti rilevazioni. L’aumento del numero di dottorande in questi settori riflette anche il maggior investimento nei settori scientifici e tecnologici e soprattutto nella ricerca su ambiente, energie rinnovabili e sostenibilità che ha prodotto un aumento dei posti di dottorato e di assegni di ricerca nelle materie STEM, aumentando anche in termini relativi il numero di donne che proseguono la carriera accademica rispetto ad altri settori.
Ma quante di queste donne continuano a fare ricerca e proseguono la carriera accademica raggiungendo posizioni lavorative stabili? Poche. Le ricercatrici con contratti stabili sul totale delle donne in età lavorativa sono infatti il 6,1% contro l’8,6% degli uomini.[4]
Se si guarda all’andamento delle posizioni di ricercatori a tempo determinato di tipo A (junior) o di tipo B (senior) i numeri, infatti, calano. Nel 2021 nonostante l’aumento di posti da ricercatore a tempo determinato banditi, grazie ai diversi piani di investimento straordinari previsti, in realtà la percentuale di donne è scesa al 35% (mentre nel 2019 e nel 2020 era stabile al 37%).
Figura3. Contratti di tipo A ed di tipo B università Italiane, settori STEM
Fonte: Anagrafe CINECA
Figura4. Percentuale Donne nei settori STEM
Fonte: Anagrafe CINECA
Questo accade solo perché le donne sono meno interessate alla ricerca scientifica e meno brave in matematica degli uomini?
Le donne sono meno disposte ad accettare anni di precariato, di instabilità lavorativa e di vita, sono quelle che in assenza di servizi pubblici che consentano di conciliare famiglia e lavoro si sentono maggiormente costrette a scegliere lavori che consentono orari più flessibili e più "a misura di famiglia". Questo significa che rinunciano prima ad una carriera accademica che non consente loro di poter compiere scelte di vita in piena serenità e sacrificando le esigenze di carriera a quelle di vita.
Allo stesso modo questo si evidenzia nei settori privati del mercato del lavoro: le donne sono quelle che anche a fronte di salari più elevati del settore privato, che oltretutto retribuisce meglio i ruoli apicali dei laureati STEM, tendono a preferire lavori con salari più bassi ma che hanno orari e stili di vita sostenibili e compatibili con le scelte personali e familiari. Non è un caso se le donne, per la maggior parte, si rivolgono al pubblico impiego, dove un ruolo predominante lo assumono la scuola e la formazione. Lo confermano i dati diffusi dalle indagini Ocse e dal Ministero dell’Istruzione relativi all’anno scolastico 2019/20. Infatti, secondo i dati Ocse nella scuola dell’infanzia le insegnanti donne rappresentano il 97% del totale, e secondo i dati del ministero dell’Istruzione relativi all’anno scolastico 2020/21, sono 835.489 i docenti a tempo indeterminato nella scuola statale, di cui l’82,9% rappresenta la quota femminile.
Oggi il settore scuola e formazione primaria e secondaria risulta una sorta di “porto sicuro”, nel lungo termine è quello che in prospettiva dopo anni di precariato permetterà con una maggiore probabilità di essere assunte a tempo indeterminato ed è l’unico settore che permette orari e uno stile di vita meno frenetico. Molte quindi o fin dall’inizio optano per settori formativi che consentono l’accesso all’insegnamento o lo utilizzano come punto di svolta se altre carriere non danno prospettive sicure, sostenibili e stabili. A differenza dei settori umanistici, artistici e della formazione in cui già all’accesso la maggior parte dichiara di voler provare a intraprendere la carriera di docente, per la maggior parta delle laureate STEM il lavoro da insegnante risulta spesso essere la scelta obbligata là dove carriere accademiche non sono sostenibili nell’attuale contesto sociale ed economico.
Non stupisce quindi il risultato del concorso straordinario per insegnanti della scuola secondaria di primo e secondo grado nelle materie STEM bandito nel 2021: confrontando le graduatorie di tutte le regioni in cui il concorso si è tenuto, la percentuale di donne che hanno partecipato al concorso è vicina al 50% e più del 40% sono coloro risultate vincitrici in graduatoria.[5]
Questi dati ci dicono che è vero che esiste un divario formativo alla base che andrebbe colmato e che ancora oggi le donne subiscono a priori i retaggi culturali che le vedono relegate a settori “più femminili”, ma ci dicono anche che bisognerebbe agire su quelle storture del mercato del lavoro e dell’accesso ai servizi che non rendono effettivamente libera la scelta della carriera da intraprendere e in taluni casi risultano disincentivanti per i percorsi professionali e formativi delle donne.
Educare alla matematica è utile, ma ha un impatto limitato se poi le ragazze si scontrano con una realtà che non consente loro una effettiva emancipazione e indipendenza, che non ne valorizza le competenze, e che non permette loro di compiere scelte di carriera che rispecchiano le effettive volontà e le possibilità che i percorsi di studio promettono.
Questi ostacoli influiscono fortemente sulle scelte formative delle giovani donne, che saranno propense ad accedere a percorsi formativi con prospettive lavorative più coerenti con le loro esigenze, e che spesso penalizzano però le loro propensioni personali.
Incentivi formativi e creazione di competenze vanno necessariamente combinati con strumenti che abbattono quei muri che le donne si trovano ad affrontare dopo aver ritirato la pergamena di laurea. Questo vale sempre, vale nei settori in cui le donne sono storicamente sottorappresentate. E dovrebbe valere ancora di più in un periodo storico che vuole puntare tutto sulla ricerca.
Note
[1] A oggi le Università italiane si reggono per lo più sul lavoro precario: forme parasubordinate come assegni di ricerca, borse per attività di ricerca e co.co.co. della ricerca o della didattica (docenti a contratto); e forme subordinate di ricercatrici e ricercatori a tempo determinato di tipo A (contratti di 3 anni rinnovabili per altri 2) o di tipo B (riservati a chi è in possesso dell’abilitazione scientifica nazionale) che diventeranno poi docenti associati.
[2] She Figures 2021. Gender in Research and Innovation Statistics and Indicators, European Commission
[3] Fonte dei dati è l’Anagrafe Docenti e Ricercatori CINECA. Va esplicitato che i dati presenti in anagrafe non ci permettono di visualizzare immediatamente quanti assegni di ricerca sono stati attivati quest’anno e quanti invece precedentemente e quanti sono i progetti nuovi e quanti quelli rinnovati dagli anni precedenti. Stesso problema ritroviamo per i ricercatori a tempo determinato, infatti dei contratti di tipo A riportati non è indicato quanti sono al primo anno o quanti agli anni successivi. Per quanto riguarda i contratti di tipo B, sappiamo che nel 2021 sono stati banditi 3300 nuovi posti previsti dal piano straordinario più 1200 previsti dal 'decreto milleproroghe' dello stesso anno, ma anche per questo l’anagrafe non permette una facile distinzione ma solo di considerare una variazione in termini assoluti del numero di ricercatori per anno.
[4] I dati del rapporto She Figures escludono contratti di ricerca part-time.
[5] Dati elaborati sulle graduatorie ufficiali degli Uffici Scolastici Regionali.
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