Alle radici del femminismo animale. Dalle ecofemministe alle femministe antispeciste, per rintracciare le connessioni tra oppressione e sfruttamento dei corpi. E riflettere sui confini, ancora fortemente antropocentrici, del nostro modo di pensare il patriarcato
La questione animale trova spazio nel discorso femminista grazie a studiose e attiviste che, negli anni Sessanta e Settanta, hanno riflettuto sul rapporto tra sfruttamento della natura e oppressione delle donne.
Sono state ecofemministe come Carolyn Merchant, Françoise d'Eaubonne, Susan Griffin, Rachel Carson, Sherry Ortner – per citarne alcune – a indirizzare in quegli anni la riflessione sui crescenti danni prodotti dallo sfruttamento ambientale dei sistemi economici dominanti.
Le autrici di questo periodo hanno adottato spesso una prospettiva sistemica, non focalizzandosi quindi sull'esperienza delle singole persone ma sulla macrocategoria 'natura'; nei loro discorsi l'associazione tra donne e natura è analizzata soprattutto nei suoi risvolti culturali, e posta in antitesi rispetto al razionalismo del dominio maschile: la liberazione dal giogo patriarcale va di pari passo con la liberazione della natura dallo sfruttamento produttivo sconsiderato.
È solo a partire dagli anni Novanta che, a livello teorico – grazie agli scritti di pensatrici come Greta Gaard, Josephine Donovan e Marti Kheel – si sviluppa un movimento femminista antispecista, che recupera i capisaldi del femminismo intersezionale e approfondisce l'esperienza degli animali non umani nella loro singolarità, proponendo approcci alternativi al principale modello di etica antispecista diffuso fino a quel momento.[1]
A elaborare la prima teoria critica femminista vegetariana è, nello specifico, la scrittrice e attivista statunitense Carol J. Adams, che nel 1990 pubblica The Sexual Politics of Meat (edizione italiana a cura di VandA Edizioni, Carne da macello. La politica sessuale della carne, 2020).
In quest'opera, Adams esamina le comuni radici patriarcali alla base del consumo di carne e della violenza di genere, alla quale riconduce la stessa pornografia. Ad accomunare oppressione femminile e animale per Adams sarebbe una concezione dei corpi legata alla logica di dominio maschile. Da un punto di vista antropologico, infatti, l'autrice afferma che "chi detiene il potere ha sempre consumato carne" e, dunque, la carne attesta la virilità dell'uomo di fronte agli altri membri del gruppo.
L'insieme di pratiche alimentari – a partire dal modo in cui gli esseri umani si procurano il cibo e lo rendono commestibile – fino alla convivialità, alle modalità e ai tempi con cui i pasti vengono consumati, non rappresenta per Adams solo la risposta naturale a un bisogno, ma è culturalmente connotato e come tale, veicolo di significati.
Nel pensiero popolare, e passando dai manuali di cucina più diffusi nel secolo scorso – come American Oriental Cookery, di ChunKing and Mazola Corn Oil, per citarne uno – il consumo della carne è rappresentato come un attività virile, destinato soprattutto ai maschi. Applicando le tesi dell'antropologa Mary Douglas alla società statunitense del dopoguerra, Adams osserva come le differenti abitudini alimentari riflettano e rafforzino i ruoli di genere socialmente attesi.
L'associazione tra carne e mascolinità, spiega Adams, diventa più evidente nei periodi di carestia e di crisi economica, in cui è consuetudine che, all'interno del nucleo familiare, le donne sacrifichino la loro porzione di carne per offrirla agli uomini, secondo la convinzione che l'alimento più nobile spetti al pater familias.
Nei contesti di guerra, il rapporto tra carne e mascolinità viene ulteriormente rafforzato da una concezione bellica della forza maschile. Come raccontava un articolo comparso nell'aprile del 1973 sul New York Times, intitolato Red Meat Decadence, durante la Seconda guerra mondiale, per esempio, le politiche di razionamento alimentare, concedevano la carne esclusivamente ai soldati, i quali, aderendo al paradigma di mascolinità guerriera, ne avrebbero avuto bisogno per poter esercitare la loro forza sul nemico, dopo averla simbolicamente manifestata sui corpi degli animali consumati.[2]
Il dominio, infatti, afferma Adams, "richiede di essere costantemente ricordato sul piatto di ognuno", e la carne provvede a esserne simbolo, a rappresentare l'ordine gerarchico che legittima lo sfruttamento, la violenza e l'uccisione degli animali.
Adams usa l'espressione "politica sessuale della carne", per riferirsi a un insieme di meccanismi che uniscono la sessualizzazione dei corpi al loro consumo. L'espressione descrive il doppio livello su cui la violenza di stampo patriarcale viene esercitata, ossia attraverso "la macellazione delle donne" e "lo stupro degli animali": da un lato, le donne vengono degradate attraverso il paragone con gli animali non umani, che occupano un gradino inferiore nella gerarchia sociale; dall'altro, le immagini di animali raffigurati in pose e atteggiamenti seducenti mettono al centro del concetto di carne il desiderio maschile, inteso anche come desiderio sessuale, di possesso dei corpi.
Il punto di intersezione è individuato nel ciclo di oggettificazione, frammentazione e consumo, che rappresenta il comune destino riservato quotidianamente ai corpi femminili e animali. Attraverso l'oggettificazione, i corpi vengono – letteralmente o metaforicamente – ridotti a carne, violati sessualmente o uccisi e, dunque, trattati con modalità normalmente riservate agli oggetti.
L'oggettificazione è ciò che rende possibile la frammentazione e lo smembramento, che trasformano un corpo intero in un insieme di pezzi. Nelle pubblicità, per esempio, i corpi delle donne sono spesso rappresentati in maniera frammentata: l'attenzione dell'osservatore è catturata da una coscia, una natica, un seno, da singole parti e zone corporee. In questo modo il corpo femminile è depersonalizzato, la sua individualità è sacrificata e scomposta.
Infine, il corpo frammentato viene consumato. Se, nel caso degli animali, il consumo è letterale e si realizza nell'atto con cui vengono mangiati, i corpi delle donne sono per lo più consumati attraverso immagini pornografiche pensate e realizzate per lo sguardo maschile.
Il meccanismo di oggettificazione, frammentazione e consumo si riflette anche nella struttura del linguaggio, che permette di occultare le radici culturali del dominio maschile fino a naturalizzare e istituzionalizzare lo sfruttamento.
L'ideale di "uomo cacciatore" mostra come due registri linguistici si mescolino: i termini latini associati all'uccisione di animali, come venatio (caccia) e venor (cacciare) hanno la stessa radice di venus, termine legato alla sfera della seduzione. Non è un caso se il lessico utilizzato per descrivere i rapporti romantici e sessuali faccia spesso riferimento alla retorica della conquista e della caccia, in cui troviamo un predatore e una preda.
Nell'alimentazione, il ruolo del linguaggio è quello di favorire l'accettazione dell'oppressione, perché le parole utilizzate creano un distacco tra la carne presente nel piatto e il corpo dell'animale che è stato ucciso.
Per spiegare il processo di rimozione dell'animale dalla carne Adams introduce il concetto di "referente assente": l'animale vivo è la condizione necessaria alla produzione della carne, ma, affinché questa esista, l'animale deve cessare di esistere come individuo. La struttura del referente assente produce un mascheramento della realtà letterale attraverso una sua continua rinominazione: diciamo di mangiare, genericamente, "carne", oppure "bistecche", "braciole" e "hamburger" invece che "maiali", "mucche", "vitelli", "polli".
Evitando di nominare direttamente l'animale che viene consumato, il nostro linguaggio produce così un'assenza all’interno del discorso. Le diverse parti del corpo assumono poi nomi diversi a seconda della forma e del modo in cui sono cucinate, allontanandosi dalle loro definizioni anatomiche e impedendo che vi sia un’associazione diretta tra queste e l’animale da cui derivano.
Il significato letterale della carne viene così cancellato dal discorso e trasformato in metafora che, riducendo la potenza materiale della violenza, la rende più accettabile.
Molte donne vittime di violenza, nel testimoniare gli abusi subiti, affermano di essersi sentite "come pezzi di carne": da soggetti attivi, sono state cioè trattate come oggetti e costrette a subire la volontà di qualcun altro. In questo caso, il concetto di carne viene inteso nel suo significato letterale, come risultato della trasformazione del corpo vivente a oggetto consumabile, ma solo per descrivere metaforicamente l'esperienza delle donne e senza che ciò conduca a una presa di consapevolezza e a una riflessione sul trattamento degli animali.
Questa è la critica che Adams muove al femminismo radicale che, pur avvalendosi della metafora animale, evita di interrogarsi sull'esperienza letterale degli animali: "il prestito metaforico che non denuncia la violenza originaria non riconosce l'interconnessione tra le diverse forme di oppressione", afferma l'autrice.
Indagando sull'intersezione tra femminilità e animalità, si può facilmente osservare come, a subire doppia violenza, siano le femmine delle altre specie animali, i cui corpi non sono solo consumati dopo la morte, ma anche sfruttati in vita per produrre quelle che Adams definisce "proteine femminizzate", ossia i derivati di origine animale come uova e latticini.
Per la loro produzione, le femmine non umane sono costrette a numerosi cicli di riproduzione, gravidanza e separazione forzata dai figli. Una volta invecchiate e diventate inutili ai fini riproduttivi, vengono macellate. La dinamica di questi processi non può essere slegata dall'analisi del contesto patriarcale, che favorisce la cultura dello stupro e il controllo riproduttivo sui corpi femminili, facendo dipendere il valore delle donne dalla loro capacità di procreare.
La critica di Adams, dunque, pur definendosi vegetariana, denuncia in egual misura la violenza esercitata sugli animali ancora in vita e il consumo dei prodotti che da tale violenza derivano. La conclusione a cui giunge è che solo con un'alimentazione vegana può essere messo in pratica il rifiuto di ogni forma di oppressione nei confronti di altri esseri senzienti.
Secondo questa prospettiva, l'obiettivo di un femminismo realmente intersezionale dovrebbe essere allora quello di sviscerare i meccanismi e le strutture – anche linguistiche – che producono e perpetuano una separazione tra corpi degni di essere trattati come soggetti e corpi sacrificabili, cancellabili, consumabili.
Nominare la realtà letterale, mostrare la violenza che ruota attorno alla carne e agli altri prodotti dell'oppressione, liberando il concetto dalle implicazioni simboliche e metaforiche, significa decostruire le gerarchie di potere che hanno legittimato e istituzionalizzato pratiche di violenza, di sfruttamento e di tortura nei confronti degli animali non umani.
Note
[1] Le teorie antispeciste classiche hanno nell'utilitarismo di Peter Singer e nel giusnaturalismo di Tom Regan i maggiori rappresentanti, che tuttavia restano estranei al discorso femminista e intersezionale.
[2] R. Baker, Red Meat Decadence, "The New York Times", p. 43, 3 aprile 1973.
Riferimenti
C. J. Adams, Carne da macello. La politica sessuale della carne. Una teoria critica femminista vegetariana, VandA Edizioni, Milano 2020
C. J. Adams, Perché un maiale? Un nudo sdraiato svela le interconnessioni tra razza, sesso, schiavitù e specie, “Liberazioni. Rivista di critica antispecista”, 13, pp. 7–32, 2013
C. J. Adams, La costruzione sociale dei corpi commestibili e degli umani come predatori (1991), "Diogene: filosofare oggi", n. 22, pp. 44–46, 2011
C. J. Adams, The Pornography of Meat. Living Among Meat Eaters, Bloomsbury USA Academic, New York, 2004
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