A quasi due anni dal referendum un rapporto mostra come pensare al destino delle donne avrebbe rivelato le reali conseguenze della Brexit per tutti

Nonostante i rimorsi, le obiezioni e le proposte di ricominciare da capo, il Regno Unito si prepara a lasciare l’Europa. E lo farà, stando a quanto si legge sulla stampa inglese, anche se un accordo vero e proprio non dovesse essere raggiunto, e a prescindere dall’approvazione del Parlamento.
La data del divorzio è fissata al 29 marzo 2019, a cui seguiranno ventuno mesi per la transizione, ma a quasi due anni di distanza dal referendum non sappiamo ancora con precisione in cosa consisterà, né cosa comporterà esattamente la Brexit per tutti, inclusi gli oltre 4 milioni di persone tra cittadini europei che vivono nel Regno Unito e cittadini inglesi che vivono in altri paesi Ue.
Quello che sappiamo è che sono ancora in corso i negoziati tra Europa e Regno Unito e che gli accordi potrebbero essere più o meno restrittivi in termini di libera circolazione delle persone e delle merci. È a questi scenari possibili che si riferiscono le espressioni hard Brexit e soft Brexit molto in voga nel dibattito in corso.
Secondo le previsioni, entrambe le possibilità comporterebbero un calo di PIL per il Regno Unito, spiega il gruppo di economiste femministe Women’s Budget Group (WBG) in un rapporto pubblicato il 26 marzo scorso, lo stesso giorno in cui la BBC ha diffuso la guida Tutto quello che c’è da sapere sulla Brexit, una settimana esatta prima del lancio della campagna PayMeToo per la parità salariale tra uomini e donne da parte di Stella Creasy e altre parlamentari britanniche.
Le stime parlano di un calo di PIL che potrebbe arrivare nei prossimi dieci anni fino al 9,5% nel caso di una Brexit “dura”, tra l’1,5% e il 3,5% con una Brexit più leggera. Tuttavia, a prescindere dal modello di Brexit a cui il Regno Unito andrà incontro, a nessuno sembra importare davvero su quali fasce di popolazione gli effetti di tutto questo si ripercuoteranno con maggiore impatto.
“Non c'è dubbio che la Brexit avrà un impatto dannoso sull'economia del Regno Unito, e nel caso di una Brexit più dura andrà ancora peggio” commenta Mary-Ann Stephenson, Direttora del Women’s Budget Group. “Per molte donne, soprattutto le più povere, questo potrebbe tradursi nella perdita di posti di lavoro, in tagli ai servizi, nella riduzione dei budget familiari e delle tutele legali”.
Il rapporto che il WBG ha curato con la Fawcett Society conferma la preoccupazione che le economiste dell’Università di Manchester Colette Fagan, Nina Teasdale e Helen Norman esprimevano un anno fa proprio sulle pagine di inGenere rispetto al fatto che la Brexit, dopo gli anni delle politiche di austerità seguiti alla crisi finanziaria, avrebbe fatto male alle donne in modo particolare.
Per cominciare, i settori più coinvolti, fanno notare le autrici, saranno quelli a forte prevalenza femminile, come il settore tessile e dell’abbigliamento, più vulnerabili alle barriere commerciali, e quello del welfare, che verosimilmente continuerà a subire altri tagli – si parla di una riduzione della spesa pubblica che potrebbe variare dai 7 ai 48 miliardi di sterline nei prossimi dieci anni – qualcosa che si tradurrebbe comunque in una perdita di parità, essendo la disponibilità di servizi alla base del raggiungimento di un’indipendenza economica per le donne.
Nel settore della cura e dell’assistenza sociale, poi, le donne rappresentano l’80% della forza lavoro. Parliamo di 1,37milioni di occupate in posizioni spesso poco qualificate e a bassa retribuzione in un settore dove il 5% è rappresentato da lavoratori provenienti da altri paesi Ue che probabilmente stanno pensando di lasciare il posto di lavoro o lo lasceranno con la Brexit, spiega il rapporto.
E che ne sarà di un sistema sanitario nazionale dove su 2 milioni di occupati il 77% sono donne, di cui oltre 62mila provenienti da altri paesi dello Spazio economico europeo? Una crisi economica di questo tipo, prevedono le autrici, potrebbe rinforzare la crisi di reclutamento già in corso nel settore sociale e sanitario e più in generale portare l’intero mercato a dei passi indietro in termini di politiche del lavoro, compresi congedi parentali, parità di trattamento e flessibilità degli orari.
Se a questo si aggiunge che circa il 30% del valore del cibo acquistato nel Regno Unito viene importato e che il 70% delle importazioni di cibo all’ingrosso proviene da altri paesi Ue, non è difficile immaginare come i costi di importazione e il calo della sterlina causerebbero l’aumento dei prezzi dei generi alimentari con un impatto medio sulle famiglie che potrebbe variare tra le 580 e le 6.400 sterline all’anno. Un quadro che ancora una volta andrebbe a incidere da vicino sulla vita delle donne: sono le donne ad avere maggiori probabilità di essere povere e a farsi carico più spesso dei bilanci familiari nei nuclei meno abbienti, spiegano le autrici.
Ma non è tutto. Lo studio guarda oltre e arriva a immaginare gli effetti indiretti che un cattivo rapporto con l’Unione europea potrebbe avere su tutte le persone che vivono nel Regno Unito. Il paese infatti diventerebbe vulnerabile di fronte alle pressioni commerciali di stati non Ue rispetto a condizioni che passano non solo sopra i diritti delle donne, ma anche dei lavoratori e che vanno a discapito della salute dei consumatori e della qualità del cibo e dei servizi per tutti. L'importazione di polli al cloro e bistecche imbottite di ormoni non sarebbe più un problema, per fare un esempio.
“Non possiamo permettere che accada. Ed è il motivo per cui il governo deve modificare la legge sull’uscita dall'Ue e proteggere i diritti che rischiano di essere indeboliti dalla Brexit" dichiara Sam Smethers, CEO della Fawcett Society.
L'aspetto più interessante che l’analisi del WBG sembra descrivere in modo dettagliato è come la crisi scatenata dalla Brexit rischierà di tradursi in una marcia indietro non solo in termini di parità, ma anche più estesamente di giustizia sociale. Come mostra il rapporto a una lettura più attenta, occuparsi seriamente dell'impatto della Brexit sulle donne aiuterebbe i politici a valutare le conseguenze meno ovvie e più pesanti della decisione, rivelando le reali dimensioni del problema per tutti.
Invece di sicuro all’interno dei negoziati nessuno ci sta pensando. Del resto, se nemmeno i sostenitori della campagna Remain, come faceva notare in un’analisi a caldo Elizabeth Pollitzer, avevano minimamente preso in considerazione il destino delle donne dopo la Brexit, perché qualcuno dovrebbe farlo ora?