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Piattaforme di lavoro e disuguaglianze: due progetti nati durante la pandemia mostrano come per conciliare nuove opportunità di mercato e tutela delle persone serve uno sguardo intersezionale, capace di tenere insieme genere e innovazione, diritti e comunità

Nella giungla della
platform economy

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Foto: Unsplash/ Sargis Chilingaryan

La chiamano ‘platform economy’ ed è un fenomeno in costante crescita: secondo le stime della Commissione europea rappresenta già la forma primaria o secondaria di reddito per oltre l’11% delle persone impiegate nel mercato del lavoro europeo.[1] Accanto alla creazione di nuove opportunità lavorative e alla facilitazione nel raggiungimento di nuovi target di clientela, però, il lavoro piattaforma si è subito mostrato come un amplificatore di disuguaglianze, avendo creato, nel giro di pochi anni, nuove forme di precarietà e minato profondamente i meccanismi tradizionali di protezione sociale.

Malgrado gli enormi sforzi di raccolta, analisi e interpretazione di dati in grado di fornire un quadro analitico della situazione, non siamo ancora in grado di guardare tra le increspature di un fenomeno così complesso, il cui impatto varia enormemente al variare di una serie di fattori, come il contesto socioeconomico del paese in cui la piattaforma opera, il quadro legislativo e, non ultimo, il genere di appartenenza.

Lo European Institute of Gender Equality (Eige) stima che oltre il 42% dei lavoratori di piattaforma siano donne, le loro esperienze rimangono però ad oggi ampiamente sconosciute e ancora da esplorare.

Il 29 marzo si è tenuto a Milano un incontro ospitato dal Milano Luiss Hub e organizzato dalla Fondazione Giacomo Brodolini all'interno del progetto Horizon 2020 PLUS (Platform Labour in Urban Spaces), un percorso culturale e di divulgazione che si sta muovendo proprio sull’intreccio tra genere, innovazione e città, in una prospettiva intersezionale e interdisciplinare. L’incontro era dedicato a esplorare un tema complesso e caldissimo, in particolare in seguito alla crisi innescata dalla pandemia: il lavoro piattaforma e le sue ricadute sociali, in particolare sulle donne e sui soggetti più fragili che ne sono spesso i protagonisti e le principali vittime.

“In Italia stiamo ancora muovendo i primi passi nell’esplorazione delle asimmetrie dell’impatto del lavoro piattaforma” ha confermato la Ivana Pais, ordinaria di Sociologia economica nella facoltà di Economia dell'Università Cattolica, intervenuta durante l'evento. “Abbiamo poche ricerche e ci sono delle variabili di contesto rilevanti; quindi, è utile capire cosa sta succedendo nei singoli contesti socioeconomici”.

Numerosi ostacoli persistono alla comprensione di un fenomeno che sappia essere libera da pregiudizi culturali e mantenere uno sguardo intersezionale che permetta di intercettare l’interdipendenza tra varie forme di marginalità.

“Il caso studio di  Helpling, piattaforma tedesca presente in Italia, ci ha permesso di capire che ci sono molti più uomini che offrono servizi di pulizia attraverso le piattaforme e che fanno il prezzo più alto rispetto le donne” ha continuato Pais. “Le differenze di genere nello stabilire un prezzo più alto sono notevoli. La ricerca continua a focalizzare gran parte della propria attenzione sui rider, malgrado in Italia, già da tanto tempo, sappiamo che i lavoratori e le lavoratrici domestiche sono molto più numerose. Così come risulta notevole la presenza di lavoro piattaforma qualificato (pensiamo ad avvocati, psicologi, e liberi professionisti)”.

Nelle piattaforme vediamo riprodursi e rafforzarsi forme di stratificazione sociale che rispecchiano quella che avviene offline, nelle nostre città, nei quartieri e nelle comunità. Durante l’incontro tenuto al Milano Luiss Hub, due imprese hanno raccontato due progetti sociali nati durante la pandemia da Covid-19, che ha rappresentato un momento di grande cambiamento per le piattaforme: se da un lato, anche grazie all’accelerazione digitale, molte di esse hanno avuto una crescita esponenziale, dall’altro, la crisi sanitaria ha rafforzato le condizioni di lavoro precario e la vulnerabilità. In primo luogo delle lavoratrici.

Takeve, una piattaforma di delivery pensata per rilanciare l'occupazione femminile con un servizio “etico, sicuro e sostenibile”, fondata a Roma dall’imprenditrice Evelyn Pereira, nasce proprio dall’osservazione del drammatico impatto della pandemia sul tasso di occupazione e sulle condizioni lavorative delle donne. Le disuguaglianze di genere nel mondo del lavoro sono state esacerbate alla pandemia, con 13 milioni di donne in meno occupate nel 2021 rispetto al 2019, mentre l’occupazione maschile è tornata ai livelli del 2019.[1]

L’imprenditrice racconta così il suo progetto: “Durante la pandemia, con la mia seconda figlia appena nata e osservando la crisi della ristorazione, mi sono chiesta cosa fare per migliorare la situazione. Takeve nasce come S.r.l.s. e diventa presto società benefit: è un progetto imprenditoriale che si sviluppa in un settore che deve essere rigenerato, presidiato dai big player ma con spazio per iniziative locali che credono in un settore più sostenibile ed etico”. Takeve ha l’obiettivo preciso di ridurre il gender gap sul mercato del lavoro, continua Pereira “ha una flotta interamente femminile e prevede in futuro di essere la prima azienda 50/50 uomini e donne. La flotta si sposta con mezzi elettrici grazie a partnership con altre aziende: multinazionali che credono nel progetto e hanno supportato l’azienda dal punto di vista della sicurezza delle rider. Abbiamo un approccio olistico fondato non solo su commissioni più sostenibili ma anche sul supporto a progetti contro lo spreco alimentare e a varie onlus”.

So.De- Social Delivery mira invece a offrire una visione alternativa dei modelli piattaforma. Nata a Milano da un gruppo progettuale di 6 co-fondatrici e co-fondatori che fanno capo all’associazione di promozione sociale Rob De Matt – da anni attiva nel campo dell’inclusione sociale – per proporre una soluzione alla drammatica situazione dei rider durante il primo lockdown, So.De si presenta come una startup che promuove il delivery etico, sociale e sostenibile.

Elia Cipelletti (co-founder) e Cecilia Porcelli (rider) si raccontano così: “Durante la pandemia Rob De Matt è diventato un food hub e il tema della logistica delle consegne ci è letteralmente capitato tra le mani. I rider erano in balia di una situazione drammatica: sfruttamento, mancanza di contratti e di assicurazioni. Ci siamo chiesti: come possiamo cambiare questa situazione? Abbiamo provato a ipotizzare come poteva essere un servizio di delivery etico e sostenibile. Abbiamo pensato e portato avanti il progetto grazie a un bando del Comune di Milano, che è quello del crowdfunding civico”.

“In tre mesi abbiamo raccolto più di 28.000 euro provenienti da più di 500 donatori in tutta Italia” continuano “portandoci a ricevere un ulteriore 60% da parte del Comune, dando vita alla startup. Il progetto è stato ben accolto perché toccava un tasto caldissimo per il periodo: siamo partiti stendendo un business model e stringendo partnership con varie aziende del territorio che ci hanno fornito i mezzi”.

So.De. non si ferma al delivery tradizionale, spiegano i suoi fondatori “ma il nostro progetto prevede la consegna di beni e fornitura di servizi a persone in condizioni di bisogno. Grazie a partnership come Too Good To Go siamo riusciti a consegnate più di 50 pasti a famiglie in stato di fragilità a nord di Milano: il lavoro commerciale è funzionale alle attività solidali. Eroghiamo vari tipi di formazione (alla sicurezza, alla comunicazione) per fare in modo che i rider siano consapevoli dei propri diritti: questo è un fattore cruciale che crea le condizioni adeguate affinché tutte le lavoratrici e i lavoratori possano ricevere un trattamento equo e trasparente. Per questo So.De nasce e si radica nei quartieri, e i rider sono protagonisti e la vera guida e voce del progetto”.

I progetti raccontati a Milano, sono utili a comprendere problematiche e opportunità dei modelli piattaforma, ma anche come sarebbe possibile lavorare attivamente con le comunità per proporre nuove filiere collaborative, fondate sulla trasparenza e sulla generazione di valore condiviso.

Quella davanti a cui ci troviamo, è una sfida di portata globale. Per troppo tempo abbiamo pensato che i modelli economici sui quali si regge l’economia piattaforma (e le tecnologie emergenti nel loro complesso) fossero neutrali e guidati da regole standard e univoche, in grado di servire qualsiasi categoria di utenti. L’esperienza ci sta insegnando che nessuna tecnologia è neutrale e che, spesso, gli algoritmi dietro le piattaforme esacerbano le disuguaglianze e i pregiudizi presenti nella società che li ha creati, portando a pagarne le conseguenze categorie storicamente escluse e marginalizzate.

È imperativo adottare quindi uno sguardo sempre più interdisciplinare e un approccio intersezionale per essere in grado di creare e utilizzare tecnologie disegnate e guidate sulla base di principi di giustizia sociale, economica e ambientale. C’è bisogno uno sforzo rilevante a livello di politiche nell’immaginazione e nella concertazione di forme di tutela che siano in grado di essere flessibili e di accordarsi a un mercato in costante evoluzione. Mentre progetti virtuosi sperimentano nuove modalità di utilizzo delle tecnologie per il bene comune, che si situano sotto il tanto noto quanto discusso e discutibile ombrello del tech for good, dobbiamo sempre più ricordare di chiederci: good per chi? 

Note

[1] Le perdite di lavoro e reddito dalle donne a causa della pandemia sono destinate a perdurare, Organizzazione Internazionale del Lavoro, 19 luglio 2021