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Per le ragazze il vero ostacolo ad andare avanti nelle materie scientifiche sono gli stereotipi. Lo confermano gli ultimi dati Pisa diffusi da Ocse

Scienze. Per le ragazze il vero ostacolo
è la scarsa fiducia in sé

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Foto: Flickr/Bindaas Madhavi

Non capita mai, nei sistemi scolastici dei paesi che partecipano ai programmi dell'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Ocse)[1], che l’apprendimento in matematica delle ragazze sia mediamente migliore di quello dei coetanei maschi. In certi paesi il gap si è ridotto sensibilmente, ma non sparisce. Nella porzione di cielo dei top performers, però, di ragazze bravissime ce ne sono, seppure in numeri solitamente più esigui. Eppure anche lì – osserva il rapporto Ocse dedicato all’eguaglianza di genere nell’istruzione[2] – le ragazze sono quattro volte meno propense dell’altro sesso a immaginare il futuro professionale in campo scientifico e tecnologico. Non solo. Se intervistate, rivelano frequentemente il timore di non riuscire a padroneggiare le difficoltà della disciplina.

Sarebbe in questa scarsa fiducia in sé l’ostacolo vero. Non capire la matematica nei suoi elementi e processi formali ma “pensare da scienziati”, saper cioè rappresentare in linguaggio matematico una situazione concreta e misurarsi – come chiedono appunto i test del Programma per la valutazione internazionale degli studenti (Pisa) diffusi dall'Ocse - con il problem solving. Perché solo chi ha fiducia in sé si permette di sbagliare, “e quello che serve nella scienza è proprio saper procedere per tentativi ed errori”. Lo svantaggio femminile in campo scientifico, dunque, non deriverebbe da limiti cognitivi strutturali o da una particolare contrarietà  alla connotazione spiccatamente astratta del sapere matematico, ma da un portato di natura socioculturale. Composto  di ingredienti diversi, come le aspettative dei genitori e degli insegnanti, l’influenza dei media, la minore presenza femminile in certi ambiti professionali, ma tutti convergenti.

Non si giustifica così il fatto che in non poche realtà molte studentesse, seppur più deboli in campo scientifico rispetto agli studenti dello stesso paese, raggiungono tuttavia livelli decisamente superiori a quelli dei maschi più bravi di altri paesi. Dipende dal contesto, di cui è parte essenziale quello che si prefigge ed è capace di fare il sistema scolastico, i suoi decisori, i suoi operatori. È nell’istruzione, sostengono i ricercatori dell’Ocse, la chiave principale del superamento di un divario di genere che condiziona il futuro professionale femminile. A partire dagli insegnanti che, sebbene in maggioranza donne, si fanno spesso irriflessivo veicolo di antichi stereotipi, o non sono comunque attrezzate a interventi didattici e orientativi adeguati alla specificità femminile.

Ciò vale in particolare per il sistema scolastico italiano in cui i divari di genere sono più spiccati e resistenti che altrove. Con tutto quello che poi ne segue, in termini di sviluppo o viceversa di indebolimento delle competenze acquisite nei percorsi di istruzione in età adulta, nella vita sociale e lavorativa. È importante, in proposito, tener conto, oltre che dei risultati di Ocse-Pisa, anche di quelli di Survey of Adult Skills[3] in cui si segnala che l’altro tradizionale divario di genere, cioè il vantaggio delle ragazze in lettura, si assottiglia fino a sparire nelle fasce di età più mature proprio a causa dell’implementazione delle competenze che si può generare con la partecipazione al lavoro. Che però in Italia è sensibilmente più bassa per le donne, e assai meno incentrata di quella maschile in ambiti scientifico-tecnologici. Il cane che si morde la coda. Da un lato uno svantaggio che non si recupera in età adulta, dall’altra un vantaggio che nell’età adulta si finisce invece col perdere. 

C’è molto da fare, dunque, nel mondo dell’istruzione, ma da noi sembra che stenti a succedere. Come mostra l’ultima indagine Ocse-Pisa sui 15enni, non ci sono evoluzioni positive in termini di riduzione dei gap di genere perché il sistema scolastico italiano è sostanzialmente immobile. O perché i cambiamenti sono troppo lenti rispetto al dinamismo e alla velocità di altri sistemi. Da diversi anni, del resto, il tema della parità di genere è sparito dall’orizzonte delle riforme della scuola, o si presenta in forme che finiscono col suscitare più fraintendimenti e contrasti che utili condivisioni.

Pisa 2015, che in questa edizione analizza in particolare gli apprendimenti in scienze - con test  per la prima volta svolti al computer -, mostra che l’Italia non solo resta a fortissima distanza dalle tigri asiatiche - in scienze Singapore totalizza 556 punti, contro i 481 italiani -, ma perde terreno anche rispetto ai paesi europei, agli USA e al Canada - quinta posizione in classifica, con 528 punti. Sebbene i nostri studenti abbiano il carico di studio più alto - 50 ore settimanali tra scuola, compiti a casa, ripetizioni private contro le 41 del Giappone e le 36 della Finlandia, il paese più brillante dell’area europea -, ci troviamo 50 punti sotto la Finlandia, 30 sotto la Germania e il Regno Unito, 15 sotto la Francia. E addirittura 20 sotto il Portogallo, il paese con la migliore rimonta, nonostante austerità e crisi, e nonostante sia stato fino agli anni Ottanta una delle realtà europee più depresse per livelli medi di istruzione. Ma il Portogallo, si sa, ha recentemente azzeccato alcune riforme fondamentali, maggiore autonomia agli istituti scolastici, maggiori poteri ai dirigenti scolastici, possibilità di una flessibilizzazione dei curricoli, energici ed intensi programmi di formazione dei docenti. E i risultati si vedono, perfino nella quasi scomparsa degli svantaggi scolastici dei figli dell’immigrazione.

Ma il problema non è solo in scienze. Se qui siamo scivolati al 33esimo posto, perdendo cinque posizioni da Pisa 2012 - e 12 punti negli ultimi 15 anni -, le cose vanno maluccio anche in matematica dove c’era stato invece un significativo recupero e perfino in lettura. Siamo fermi, mentre altri corrono. Lo sappiamo anche dai test Invalsi che pure tengono conto più di quelli Pisa delle specificità del sistema scolastico italiano, e della sua straordinaria lentezza nella modernizzazione della didattica, in particolare nel ciclo secondario.

Tra gli elementi più inquietanti, va segnalato da un lato il fatto di essere sopra la media Ocse di più di 2 punti (23,4% contro il 21,2%) per la quota di quindicenni sotto il livello minimo delle competenze in scienze, dall’altro di essere 3,5 punti sotto (4,1% contro il 7,7%) per quanto riguarda i top performers. Troppi, insomma, i risultati molto scadenti, troppo pochi i più brillanti. Idem in lettura, dove 1 quindicenne su 5 (21%) non è in grado di capire un testo breve di media complessità e dove i bravissimi sono solo il 5,7% contro l’8,4% della media Ocse.

Migliore la situazione per matematica, con un 10,5% di bravissimi, ma anche qui, come in scienze, c’è una quota troppo consistente  di studenti al di sotto del livello minimo. Enormi, inoltre, le differenze territoriali. Se sia la Lombardia che la Campania peggiorano sensibilmente in matematica, lettura e scienze, la distanza tra le due è maggiore di quella tra Lombardia e Singapore: qui il divario in lettura è infatti di 30 punti (505 contro 535), mentre tra Lombardia e Campania è di 50 punti (505 contro 455). Quasi la stessa situazione per la matematica, dove il punteggio di Singapore è 564, quello della Lombardia è 508, quello della Campania è 456. Pesante, infine, il divario tra studenti autoctoni e studenti figli dell’immigrazione, che si è ridotto di 32 punti solo grazie a una quota in continua crescita, tra gli stranieri, dei ragazzi nati in Italia (nel 2014-15 sono ormai il 55,3%), ma che resta comunque molto alto, con il 40% degli stranieri ad alto rischio di bocciature e di abbandoni precoci.

E le ragazze? Inevitabili, in questo quadro, le cattive notizie. Mentre nella maggior parte dei paesi Ocse il gap di genere in scienze è in via di recupero negli ultimi anni, in Italia (come in Austria e in Costarica) si aggrava, da 3 a 17 punti (media Ocse 17 punti). Forbice ancora più ampia nei top performers, i più bravi sono per lo più maschi (5,3% contro il 2,8% delle ragazze). E non conforta, ovviamente, che la forbice viceversa si restringa nei livelli più bassi, con il 24,9% delle ragazze contro il 21,5% dei maschi. L’unico elemento positivo si riscontra nel confronto tra le ragazze e i ragazzi figli dell’immigrazione, qui le prime sono meno esposte ai rischi di bocciature/ripetenze e degli abbandoni precoci, anche nella secondaria superiore. Ma, se si guarda all’universo Neet, i giovani fino ai 29 anni fuori dai percorsi formativi e fuori dal lavoro, si scopre che, mentre i Neet italiani sono in maggioranza maschi, i Neet di provenienza straniera sono in maggioranza femmine[4]. A pesare, in questo caso, c’è però  ben altro che il solo gap di genere nei percorsi di istruzione.

Note

[1] A Ocse-Pisa 2015 hanno partecipato 72 paesi e 540mila studenti 15enni.

[2] Ocse 2012. L’ABC dell’eguaglianza di genere nell’istruzione. I Quaderni della ricerca,n.32. Loescher 2016

[3] Survey of Adult Skills- Piaac fa parte del Programma Ocse di valutazione internazionale delle competenze degli adulti. L’edizione 2013 è stata condotta in 40 paesi.

[4] Ismu-Miur. Alunni con cittadinanza non italiana. La scuola multiculturale nei contesti locali. Rapporto nazionale 2014-2015.